Comunità Islamica Ahmadiyya: eterodossia e non violenza

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Comunità Islamica Ahmadiyya: eterodossia e non violenza

Introduzione

L’Islam è oggi la seconda religione del pianeta (i musulmani sono circa il 23% della popolazione mondiale[1]) ed è, naturalmente, un fenomeno piuttosto composito.

«L’Islam non è uno», scrive Henri Laoust, «in effetti dalla morte del Profeta, che si suole collocare l’8 giugno 632 a Medina ove fu sepolto, l’Islam ha cominciato a ramificarsi in fazioni, gruppi e tendenze: non vere e proprie sette, ma famiglie spirituali e scuole, che spesso si sono combattute più o meno duramente, ma che allo stesso tempo si sono definite proprio le une in rapporto alle altre»[2].

È noto al grande pubblico che i due principali filoni sono quello sunnita, di gran lunga maggioritario[3] e quello sciita.

Silvia Scaranari Introvigne, nel suo testo Islam, si sofferma sull’unità interna della comunità sunnita, malgrado la divisione in quattro scuole giuridico-filosofiche ed alcuni recenti movimenti riformisti.

Contrariamente ad una cospicua proliferazione di sottogruppi in ambito sciita, «soltanto l’ahmadysmo e, in maniera molto indiretta, il sikhismo (una religione che nasce dall’incontro fra l’Islam e l’Induismo)», scrive Scaranari Introvigne, «sono sorti dal sunnismo»[4].

L’ahmadysmo ― ovvero la Comunità Islamica Ahmadiyya ― viene considerato in un altro passaggio del testo della Introvigne un ‘movimento di origine islamica’, definizione che non piacerebbe affatto ai suoi membri che, invece, si considerano pienamente musulmani ma non tutti, specialmente in ambito islamico, la pensano allo stesso modo e la questione resta (lo vedremo in maggiori dettagli) non poco controversa.

La consistenza del fenomeno, del resto, non è trascurabile.

La Comunità Islamica Ahmadiyya ― fondata alla fine del diciannovesimo secolo in Punjab, nell’India nord-occidentale ― è oggi attiva in oltre 200 paesi nel mondo, contando circa dieci milioni di membri (che tuttavia, stando ai dati interni della realtà in esame, sarebbero molti di più: diverse decine di milioni).

Iniziamo a considerarne brevemente un profilo storico, a partire dalla figura del suo fondatore: Mirza Ghulam Ahmad (nella foto a sinistra).

Cenni biografici di un ‘nuovo Messia’

Mirza Ghulam Ahmad nasce, nel 1835, a Qadian ― una cittadina del Punjab, in India, che conta oggi circa quarantamila abitanti, in maggioranza musulmani e ahmadiyya ― in una famiglia aristocratica di origine centro-asiatica.

Il titolo di Mirza, di origine persiana, deriva da Amīrzāde, termine composto dal titolo arabo Amir (riconducibile alla radice semitica Amr): comandare e dal suffisso persiano zād: nascita, lignaggio, per cui si può agevolmente rendere con: figlio del capo.

Il titolo di Mirza ― conferito da re, sultani e imperatori a figli, nipoti, parenti e nobili che ne vengono considerati meritevoli ― dall’area musulmana di influenza culturale persiana avrebbe conosciuto, a partire dalla prima metà del sedicesimo secolo, una buona diffusione anche nell’India Moghul.

Tutti gli imperatori Moghul, difatti, a partire dal fondatore dello stesso impero, Mirza Zahir-ud-din (1483-1530), maggiormente conosciuto come Babur, sarebbero stati dei Mirza.

Nel corso del regno di Babur giunge in Punjab ― da Samarcanda Mirza Hadi Baig, un erudito candidato ad essere il primo qadi (giudice in grado di applicare con competenza i dettami della sharia) della zona.

Il primo imperatore Moghul, conosciuto comunemente come Babur (nel ritratto a sinistra) gli concede giurisdizione su ottanta villaggi punjabi.

Mirza Haid Baig chiama il centro amministrativo locale Islam Pur Qazi da cui verrà, successivamente, ricavato il nome di Qadian.

Nel tempo, a seguito di diversi avvicendamenti di potere (che privilegeranno, in principio, i sikh cui si sostituiranno, nella seconda metà dell’Ottocento, funzionari del governo inglese), i discendenti di Mirza Haid Baig perderanno la giurisdizione sui villaggi e lo stesso centro amministrativo, pur rimanendone gli esponenti più importanti[5].

Pronipote di Mirza Haid Baig, Mirza Ghulam Ahmad porta presto la cittadina di Qadian fuori dal sostanziale anonimato in cui versa.

Negli anni della sua infanzia, Qadian viene considerata un remoto villaggio ma suo padre ― Mirza Ghulam Murtaza ― ne è il principale proprietario terriero e ha rapporti privilegiati con le élites politiche ed economiche locali e non solo.

Il figlio ha dunque diversi tutori privati e può presto beneficiare della ricca biblioteca domestica per la sua formazione.

Crescendo, non dedicherà molte energie alla vita professionale e nemmeno alla cura degli affari di famiglia, guadagnandosi piuttosto la fama di una persona che vive in clausura, approfondendo lo studio di testi religiosi e pregando in moschea.

Tra il 1880 ed il 1884 scrive l’opera, in quattro volumi, Barahin-i-Ahmadiyya con l’intento di mostrare la superiorità dell’Islam. L’opera conosce un buon successo tra i musulmani indiani.

Nel 1889 sostiene di avere una rivelazione divina che lo legittimerebbe ad ottenere un giuramento di fedeltà dai musulmani che gli sono più prossimi.

Appena due anni dopo, tuttavia, perde l’appoggio di molti ambienti musulmani ortodossi, precisamente a seguito della sua proclamazione di «essere assieme il masih (messia, lo stesso titolo dato a Gesù dai musulmani)[6] e il mahdi atteso per i tempi ultimi per restaurare la fede»[7].

Non manca di avere problemi e subire accuse di eresia anche presso altri ambienti religiosi, soprattutto i cristiani e gli indù del movimento Arya Samaj[8].

Questi ultimi gli contestano, in particolare, il fatto che si sia attribuito anche il ruolo di avatar.

Il numero dei seguaci di Mirza Ghulam Ahmad, tuttavia, raggiunge in tempi rapidi una buona consistenza.

Considerando gli incontri annuali della Comunità (Jalsa Salana), il primo ebbe luogo nel 1891 ed ospitò settantacinque persone. In quello del 1907, il numero dei convenuti era di circa duemila. Oggi, il Jalsa Salana di Qadian ospita mediamente quarantamila persone, almeno stando ai dati forniti dalla Comunità (che ha anche registrato una punta di circa duecentomila partecipanti ad un recente Jalsa Salana a Rabwa, in Pakistan) ed altrettanti quello di Londra dove, come vedremo, gli ahmadiyya hanno spostato il loro quartier generale.

Jesus in India

E dissero: «Abbiamo ucciso il Messia Gesù figlio di Maria, il Messaggero di Allah!». Invece non l’hanno né ucciso né crocifisso, ma così parve loro. Coloro che sono in discordia a questo proposito, restano nel dubbio: non hanno altra  scienza e non seguono altro che la congettura. Per certo non lo hanno ucciso ma Allah lo ha elevato fino a Sé. Allah è eccelso, saggio.

Il Corano, IV, 157-158.

 

A Mirza Ghulam Ahmad vengono attribuite oltre 90 opere. Una in particolare, tuttavia, avrebbe conosciuto un particolare successo e, allo stesso tempo, sarebbe stata all’origine di non poche seccature per il fondatore del movimento religioso in esame: Jesus in India.

Il testo viene pubblicato, postumo, nel 1908 in lingua urdu con il titolo: Masih Hindustan Mein mentre verrà tradotto in inglese solo nel 1944.

In italiano non è ancora stato pubblicato anche se ne esiste una traduzione presso la dirigenza della sezione italiana del movimento.

Credo si possa tranquillamente affermare che il testo Jesus in India abbia una cruciale importanza ― malgrado possa sembrare semplicemente sensazionalistico ― per il movimento in analisi, data la sua decisa natura messianica.

Mirza Ghulam Ahmad si presenta difatti ― in particolare ai cristiani ― come ‘la seconda venuta del Cristo’. «Non nel senso», scrive Massimo Introvigne, «che in lui sia ritornato sulla terra Gesù di Nazareth, ma piuttosto volendo significare che il nuovo messia è venuto nello spirito e nella potenza di Gesù»[9].

Per corroborare questa tesi Mirza Ghulam Ahmad ha riconsiderato radicalmente la dottrina della morte e resurrezione di Gesù, tentando di dimostrare, scrive nella sua introduzione a Jesus in India, «che Gesù non è morto sulla croce, né è asceso al cielo; di conseguenza è anche escluso che possa ritornare sulla terra. Al contrario, la realtà dei fatti è che è morto all’età di centoventi anni a Srinagar, in Kashmir, dove la sua tomba può ancora essere visitata nel quartiere Khan Yar»[10].

L’affermazione è sicuramente forte e Mirza Ghulam Ahmad tentò di corroborarla riportando, nel suo testo, prove dai Vangeli, dal Corano e dai detti del Profeta (gli Hadith), dalla letteratura medica, prove storiche e dalla tradizione orale, argomentazioni di natura logica e ‘a seguito di rivelazioni divine’.

Naturalmente non è questa la sede per esporre a fondo i contenuti del testo, rimandando le persone interessate al sito alislam.org  dal quale è possibile scaricare il pdf dell’edizione in inglese.

Non possiamo esimerci, tuttavia, dall’esporre maggiormente in dettaglio la versione dei fatti inerenti il supplizio e la morte di Gesù elaborata da Mirza Ghulam Ahmad.

Questi parte dal presupposto, condiviso unanimente in ambito islamico, che Gesù fosse un vero profeta di Allah e che, come tale, non poteva incorrere nella più infamante delle morti ― la crocifissione ― sollecitata, scrive Mirza Ghulam Ahmad, per infangarne l’immagine nei secoli a venire.

In ambito genericamente musulmano, dunque, non si dubita (come attestano del resto i versi della quarta sura coranica citati in apertura del presente paragrafo) che Gesù non sia morto sulla croce (nella maggiorparte degli ambienti islamici si sostiene che, al suo posto, sia stato croficisso un sosia).

Considerando ora il punto di vista specifico di Mirza Ghulam Ahmad, pur non essendo morto sulla croce Gesù avebbe, tuttavia, vissuto l’ordalia della crocifissione.

Dopo alcune ore il suo corpo sarebbe stato calato, apparentemente esanime, dallo strumento di supplizio e consegnato ai fidati Nicodemo e Giuseppe di Arimatea (proprietario, quest’ultimo, del sepolcro in cui venne posto).

Curato con il Marhan-i-Isa, ‘l’unguento di Gesù’ (di cui, scrive Mirza Ghulam Ahmad, è stata riportata la composizione in diversi testi medici antichi, a partire dal Canone di Avicenna), dopo un periodo probabilmente più lungo dei tre giorni evangelici si sarebbe diretto in Galilea dove avrebbe incontrato i suoi discepoli. Avrebbe mostrato loro le ferite ancora fresche, mangiato del pesce e del miele per poi dormire assieme a loro.

Questa versione per cui Gesù avrebbe raggiunto la Galilea dopo essere sopravvissuto alla crocifissione e non dopo essere risorto trova, a parere di Mirza Ghulam Ahmad, un buon fondamento nel fatto che la stessa esecuzione della condanna capitale sia stata sospetta.

Il supplizio della crocifissione era concepito affinché il malcapitato soffrisse giorni, senza cibo né acqua, sotto il sole impietoso. In presenza di dubbi in merito al decesso, ai condannati venivano spezzate le ossa delle gambe (in genere all’altezza delle ginocchia) di modo che il corpo, non più adeguatamente sostenuto, si insaccasse su se stesso provocando la morte per soffocamento.

Dai Vangeli sappiamo che questo è stato il destino di Tito e Dimaco, i due ladroni crocifissi alla destra e alla sinistra di Gesù.

Questi, invece, è stato risparmiato. La lancia di Longino gli ha trafitto il costato da cui sarebbero usciti sangue e acqua (elemento che costituirebbe la prova che la circolazione era ancora attiva e dunque il corpo ancora in vita) per poi essere calato dalla croce dopo appena poche ore di supplizio.

La crocifissione, difatti, ha avuto luogo di Venerdì.

Il giorno successivo sarebbe stato Sabbath oltre a cadere nella ricorrenza ebraica del Fasah.

Stando alla legge giudaica, scrive Mirza Ghulam Ahmad, era tassativamente proibito che i condannati rimanessero sulla croce il Sabbath o anche la notte prima. Gli ebrei seguivano il calendario lunare, stando al quale ciascun giorno iniziava al tramonto del giorno precedente (dunque il Sabbath nel momento in cui tramontava il sole il venerdì). Di conseguenza, i corpi sono stati messi in croce nella giornata di venerdì per esservi poi tolti prima del tramonto dello stesso giorno.

Mirza Ghulam Ahmad si fa sostenitore della tesi secondo la quale Pilato stesso, anche su sentito consiglio della moglie[11], avrebbe avuto un ruolo non trascurabile nel salvare la vita a Gesù, ragion per cui tutto fu organizzato per crocifiggerlo di venerdì e poi consegnarlo a Giuseppe d’Arimatea il quale, presente sul Golgota prima del tramonto, avrebbe a sua volta caldeggiato la tesi dell’avvenuto decesso (per quanto improbabile potesse sembrare), la cui naturale conseguenza fu la presa in consegna del corpo e il suo trasferimento nel sepolcro[12].

Dopo la visita in Galilea Gesù, nella ricostruzione di Mirza Ghulam Ahmad, si sarebbe recato a Nasibain (oggi Nusaybin, in Turchia ma al confine con la Siria), come attestato nel celebre testo, storico, persiano Rauzat-us-Safaa[13], in cui sono chiaramente riportati alcuni episodi della sua permanenza che non vengono, tuttavia, collegati alla sua sopravvivenza alla crocifissione.

Successivamente avrebbe attraversato i territori dell’attuale Persia e Pakistan, dove non mancherebbero, sostiene e documenta Mirza Ghulam Ahmad, tracce del suo passaggio, per poi visitare alcune aree dell’attuale Afghanistan, in cui ci sarebbero state alcune comunità ebraiche delle dieci, perdute, tribù di Israele (ipotesi su cui si è molto dibattuto e ancora si dibatte)[14].

La sua missione, del resto, era di parlare «alle pecore perdute della casa d’Israele» (Mt. 15/24).

Giunto in Kashmir, vi avrebbe vissuto e predicato a lungo, conosciuto con il nome persiano Yuzu Asaf, lo stesso cui è ancora attribuita una delle due tombe del sepolcro di Rozabal (nella foto a sinistra), nella città vecchia di Srinagar, orientata in direzione est-ovest, alla maniera ebraica.

Giova ripetere che la morte naturale di Gesù e la sua avvenuta sepoltura, nella prospettiva di Mirza Ghulam Ahmad, corroborerebbero la sua originale interpretazione della dottrina messianica islamica, alternativa alla visione più ortodossa secondo cui Gesù non sarebbe morto ma asceso al cielo («Allah lo ha elevato fino a Sé»), per tornare in un periodo prossimo alla fine dei tempi.

La presenza stessa di un tomba di Gesù legittimerebbe dunque Mirza Ghulam Ahmad ad assumersi l’onere dell’impresa messianica, pur in rigorosa ottemperanza agli insegnamenti del maestro palestinese che lo ha preceduto. Una prospettiva che ancora oggi scontenta molti ma di cui vanno fieri, senza indugi, gli ahmadiyya.

Principi cardine, successione e travagli

I principi cardine del movimento messianico fondato da Mirza Ghulam Ahmad ― morto a Lahore nel 1908 e sepolto a Qadian che rimane «un importante luogo di pellegrinaggio per il movimento»[15] ― si riassumono efficacemente nel motto: Love for all, hatred for none (‘Amore per tutti, odio per nessuno’).

Fondamentale, in questa prospettiva, il richiamo al verso 256 della seconda sura coranica, secondo cui «non c’è nessun obbligo nella religione». Di qui, il rigetto di qualunque forma di terrorismo e violenza, per qualsiasi ragione.

In compenso, la Comunità Islamica Ahmadiyya è molto attiva sul fronte missionario e umanitario, come si darà conto più avanti.

Malgrado vengano considerati eterodossi se non eretici dalla maggiorparte dei musulmani, gli ahmadiyya credono che il Corano sia una guida perfetta per l’umanità e non richieda ― afferma Ataul Wasih Tariq, Imam della sezione italiana della Comunità, nel corso di un’intervista ― alcun aggiornamento e cambiamento.

«Il Corano», dunque, per citare ancora le parole dell’Imam, «è in grado di guidare il genere umano ― finanche attraverso fasi difficili ― alla realizzazione di una società pacifica ed evoluta».

In ragione di questo, gli ahmadiyya (o ahmadi) si considerano i più autentici esponenti dell’Islam, ‘religione di pace’ e non, come si può essere indotti a credere dagli atti di coloro che ne infangherebbero il nome, ‘di guerra e violenza’.

Il giorno successivo alla morte di Mirza Ghulam Ahmad, la Comunità elesse Hakeem Noor-ud-Din come khalīfah (‘successore’).

Nel 1914, mancato il primo khalifah, venne eletto  Mirza Basheer-ud-Din Mahmood Ahmad. La successione non trovò d’accordo tutti, provocando una scissione e la creazione della minoritaria Società Ahmadiyya per la diffusione dell’Islam di Lahore che Massimo Introvigne definisce «più vicina all’Islam tradizionale, che si sforza di diffondere in Occidente con un minimo di adattamento e con minore enfasi sulla natura messianica del fondatore (che pure rimane venerato)».

Nel 1948, un anno dopo la storica e, purtroppo, non incruenta partizione dell’India, la Comunità trasferisce il suo quartier generale nella città pakistana di Rabwa, dove la sua vita inizia a complicarsi a partire dal 1974, quando settantadue sette di matrice islamica dichiarano all’unanimità che i suoi membri non possono essere considerati musulmani.

Nello stesso anno il secondo emendamento della Costituzione del paese dichiarò, formalmente, gli ahmadi non musulmani.

Nel 1984, sotto il regime di Zia-Ul-Haq, l’Ordinanza XX proibisce agli ahmadi di mostrare qualunque genere di affiliazione all’Islam, dunque di utilizzare terminologie peculiarmente islamiche, ad esempio AssalamuAlaikum (‘la pace sia con te!’), recitare la Shahadda (dichiarazione di fede nell’unicità di Dio ed in Muhammad come Suo Profeta), chiamare i loro centri di preghiera ‘moschee’, fare il richiamo alla preghiera (Adhan) o citare il Corano o gli Hadith.

La sezione 298-C[16] della stessa Ordinanza punisce con un massimo di tre anni di carcere «un ahmadi che oltraggi il sentimento religioso dei musulmani».

Le molte persecuzioni ed arresti che seguono (clamoroso l’attacco terroristico che ha avuto luogo a Lahore nel 2010, durante le preghiere del venerdì, nel corso del quale 94 ahmadi sono stati uccisi e circa 120 persone sono rimaste ferite), inducono i membri della Comunità a spostare il loro quartier generale a Londra e a chiedere, in molti casi, asilo politico in paesi occidentali (in particolare in Germania, dove la Comunità Islamica Ahmadiyya, nel 2013, diventa ― prima realtà musulmana nel paese ― ‘ente di diritto pubblico’).

Il loro essere considerati eretici, oltre a divergenze di ordine escatologico, è da ascriversi all’accusa rivolta al loro fondatore di aver riaperto, con la sua figura, il ciclo profetico che invece, per l’Islam sunnita e sciita, si esaurisce con la figura di Muhammad.

I problemi, nei paesi islamici, non si esauriscono in Pakistan dove le condizioni di vita, per gli ahmadi, peggiorano ulteriormente con le leggi contro la blasfemiaintrodotte, nel 1993, dal Primo Ministro Nawas Sharif ― che giungono a prevedere la pena di morte per chi oltraggia il nome del Profeta.

Il governo wahhabita dell’Arabia Saudita non permette agli ahmadi di compiere il pellegrinaggio alla Mecca e sono vittime di persecuzioni soprattutto in Bangladesh, Indonesia e Kirghizistan.

Studi sulla Comunità

Studi importanti sulla Comunità sono stati fatti, alla fine del ventesimo secolo, da Antonio Gualtieri ― docente della McGill University di Montréal, in Canada e autore dei testi Conscience and coercion; Ahmadi Muslims and Orthodoxy in Pakistan e The Ahmadis, community, gender and politics in a Muslim society ― e dallo studioso israeliano Friedmann Yohanan, Professore Emerito di studi islamici dell’Università Ebraica di Gerusalemme e autore di Prophecy Continuous. Aspects of Ahmadi Religions Tought and Its Medieval Background.

Ho particolarmente apprezzato il testo The Ahmadis, community, gender and politics in a Muslim society, redatto dopo una visita dell’autore, insieme alla moglie, a Rabwa nel 1995.

In detto testo, Gualtieri si sofferma su alcuni aspetti che meritano, pur di passata, di essere menzionati, ad esempio la profonda devozione che i membri della Comunità nutrono per il loro leader (allora Hazrat Mirza Tahir Ahmad, il quarto khalifa, figlio di Mirza Ghulam Ahmad ed autore di diversi importanti testi, tra cui Murder in the name of Allah, di cui è possibile scaricare il pdf dal sito alislam.org), considerata una guida divinamente illuminata.

Stando anche a quanto mi ha detto il già citato Ataul Wasih Tariq, ogni ahmadi sente di avere un rapporto personale, diretto, con Hazoor (nome con cui viene affettuosamente chiamato il khalifa tra i membri della Comunità).

 

Il khalifa esprime la sacralità di chi possiede intrinsicamente o può avere accesso a poteri divini e che, a mezzo di essi, può affrontare efficacemente diverse difficoltà: dalla malnutrizione all’infertilità, dalle catastrofi naturali all’oppressione politica e sociale[17].

 

Un dato a mio vedere particolarmente significativo, registrato dal Professor Gualtieri, riguarda il tasso di alfabetizzazione che, presso gli ahmadi, sarebbe prossimo al 100%.

Del resto, riporta il Professore, sul muro di mattoni a vista delle classi di Rabwa (la cui popolazione, ai tempi della sua visita, era composta per il 95% da ahmadi) era regolarmente riportato lo slogan Knowledge is power, ‘la conoscenza è potere’.

Parole di elogio vengono anche dal Professor Freedman, il quale scrive nel suo Prophecy Continuous:

 

A fronte di un numero relativamente basso dei suoi aderenti, il movimento ha mostrato una notevole ‘resilienza’ nell’affrontare l’implacabile ostilità dell’establishment sunnita.

Diversamente da altri gruppi messianici, che tendono a disintegrarsi dopo la morte del proprio fondatore senza mantenere le promesse del loro messaggio spirituale, gli ahmadi hanno dato corpo ad una struttura organizzativa, con successori eletti, in grado di sostenere le attività del movimento per quasi un secolo [il testo citato è del 1989]. Gli ahmadiyya, malgrado i molti pronostici sfavorevoli, hanno dato abbondante prova di vitalità, divenendo un elemento cruciale nella vita spirituale dell’Islam. Il fondatore del movimento, i suoi successori ed altre figure chiave hanno dimostrato una straordinaria propensione a scrivere libri, pamphlets ed articoli per divulgare la visione ahmadi del mondo. La prolifica letteratura del movimento ahmadi è un importante riflesso del suo innato spirito missionario e ne ha fatto uno dei fenomeni meglio documentati dell’Islam moderno.[18]

 

Lo studio più recente (2014) in cui mi sono, infine, imbattuto è della Professoressa Emanuela C. Del Re, un articolo per la rivista Contemporary Islam; Dynamics of Muslim life: Approaching conflict the Ahmadiyya way.

Lo studio si focalizza sulle attività della Comunità Ahmadiyya in Israele (dove conta circa duemila membri) e, in particolare, nella città di Haifa, ‘modello’ di un’apprezzabile convivenza nel paese, pur a fronte di contrasti e contraddizioni, discriminazioni e disuguaglianze.

Dallo studio della Professoressa Del Re emerge il ruolo importante, svolto dalla Comunità, nel processo di pace israelo-palestinese, attraverso la sua costante presenza a tutte le iniziative volte a consolidarlo, a partire dalla ‘festa delle feste’, un festival organizzato dal Beit Hagefen Arab-Jewish Cultural Center che si svolge ad Haifa ogni dicembre dal 1993.

Il festival prende il nome dal fatto che le feste principali delle religioni ebraica, cristiana ed islamica vengono celebrate contemporaneamente ed è anche occasione per gruppi eterogenei di artisti arabi ed ebrei di esibirsi insieme.

La ricerca della Professoressa Del Re, che segnala alcune azioni fortemente simboliche degli ahmadi in Israele, ad esempio la traduzione e pubblicazione di parti del Corano in yiddish, ha dato luogo al documentario Haifa’s Answer.

Conclusioni

Attualmente la Comunità è guidata dal quinto khalīfah,  Hazrat Mirza Masrur Ahmad, eletto nel 2003.

Questi risiede a Londra e tiene i sermoni del venerdì nella Baitul Futuh Mosque del quartiere londinese di Morden.

La Comunità Ahmadiyya, si legge sul loro sito alislam.org, ha promosso, nel tempo, la costruzione di circa quindicimila moschee, cinquecento scuole ed oltre trenta ospedali in diversi paesi del mondo.

Ha tradotto Il Corano in oltre settanta lingue, diffonde gli insegnamenti dell’Islam e messaggi di pace e tolleranza attraverso il proprio canale televisivo MTA, il proprio sito internet ed una casa editrice (Islam International Publications).

Si è anche distinta in ambito umanitario con l’organizzazione Humanity First, particolarmente attiva in Africa nella costruzione di pozzi per approvvigionamento di acqua potabile in remoti villaggi.

In un Occidente a crescente presenza musulmana è probabile che il suo messaggio e le sue attività susciteranno, progressivamente, maggior interesse.

Avendo personalmente partecipato a diversi Jalsa Salana (a Qadian, Londra, San Pietro in Casale ― Bologna ― e Karls Ruhe, nel sud della Germania) ho avuto modo di riscontrare una nutrita presenza (soprattutto a Londra, dove l’incontro ha ricevuto gli auguri dalla Regine Elisabetta e in Germania) di politici e diplomatici di diversi paesi che, persuasi dallo motto e dal lavoro degli ahmadi, non disdegnano di definirsi ‘Amici della Comunità Ahmadiyya’.

Bibliografia di riferimento

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Note

[1]Dato del 27/1/2011 ripreso dal Pew Forum on Religion & Public Life (www.pewforum.org).

[2]In: Silvia Scaranari Introvigne, Islam, ELLEDICI, Torino, 1998, p. 83.

[3]Silvia Scaranari Introvigne nel suo testo del 1998, Islam, scrive che il Sunnismo raggruppa circa l’ottantacinque per cento dei musulmani mentre secondo il dato più recente, del 2009, del  Pew Forum on Religion & Public Life raggrupperebbe tra l’87 ed il 90% della popolazione islamica.

[4]Silvia Scaranari Introvigne, Islam, Editrice ELLEDICI, Torino, 1998, p. 84

[5] Manuel Olivares, Gesù in India?, Viverealtrimenti, 2015.

[6]Nell’escatologia islamica, presentata nei celebri Hadith (Detti del Profeta), si prevede un’apparizione del Mahdi alla fine dei tempi per neutralizzare il Dajjāl: un equivalente dell’Anticristo. Dopo il Mahdi o, nella tradizione sciita, in contemporanea, giungerà Gesù (in arabo Isa, il cui ruolo nell’Islam è infinitamente più importante di quanto il cristiano medio possa pensare) che, radunando le forze del bene, ucciderà il Dajjāl divenendo re della terra per un quarantennio di perfetta vita islamica.

Gesù morirà, infine, di morte naturale (nessun uomo, nell’Islam, è immortale, Muhammad stesso morì nel 632), sarà sepolto a Medina per poi risorgere nell’apocalittico Yawm al-dīn per il definitivo giudizio divino in cui Allah dannerà o sal-verà i defunti resuscitati di tutte le generazioni umane.

I meritevoli godranno dei piaceri della Janna (paradiso) mentre i dannati soffriranno nella Jahannam (l’inferno islamico).

[7]Massimo Introvigne, Le nuove religioni, SugarCo, Milano, 1989, p. 260.

[8]Di questo movimento (fondato nel 1875) scrive brevemente Jean François Mayer, co-autore del testo I nuovi movimenti religiosi, considerandolo in relazione alla presenza cristiana in India nella seconda metà del diciannovesimo secolo:

«[…]conosciuto per il suo nazionalismo militante; ostile alle influenze straniere, non proponeva di rivolgersi verso il cristianesimo; proponeva anzi il contrario, ma non approvava più l’induismo contemporaneo: Dayananda Sarasvati (1824-1883) e i suoi discepoli lo condannavano come idolatrico, rifiutavano tutte le tradizioni che si erano aggiunte nel corso dei secoli e proponevano un ritorno a una mitica purezza vedica».

In: Massimo Introvigne, Jean-François Mayer, Ernesto Zucchini, I nuovi movimenti religiosi, ELLEDICI; Torino, 1990, p. 276.

[9]Massimo Introvigne, op. cit., p. 262.

[10]Hadhrat Mirzā Ghulām Ahmad of Qadian, Jesus in India, Qadian, 2003, p. 14, traduzione mia.

[11]«Ora sedendo egli in sul tribunale, la sua moglie gli mandò a dire: Non aver da far nulla con quel giusto, perchè io ho sofferto oggi molto per lui in sogno». (Mt.27/19)

[12]Manuel Olivares, op. cit., pp. 114-115.

[13]In italiano: Il giardino di purezza. È un testo, persiano, di storia, a partire dalla creazione. Composto nel quindicesimo secolo da Mohammad ibn Khwāndshāh ibn Mahmud (1433-1498), si sviluppa in sette volumi.

[14]Interessante segnalare che, circa trent’anni dopo la traduzione in inglese del testo di Mirza Ghulam Ahmad sugli anni indiani di Gesù successivi all’ordalia della crocifissione, un viaggiatore inglese, O.M. Burke, incontrò nei pressi di Herat, in Afghanistan e documentò nel testo Among the dervishes la comunità dei Followers of Jesus, sostenitori di una tesi molto simile a quella esposta in Jesus in India. Il loro leader, Abba Yahiya (Padre Giovanni), presentò a Burke una successione di maestri attraverso sessanta generazioni, giungendo a Isa, figlio di Maria, di Nazara, il kashmiro. Nella sua versione dei fatti Gesù, sopravvissuto alla crocifissione, avrebbe soggiornato presso i loro avi prima di raggiungere il Kashmir e l’India dove avrebbe vissuto nel corso della sua giovinezza. Stabilitosi in Kashmir, venne riverito come un importante maestro: Yuz Asaf.

Le Tradizioni del Messia, scrive Burke, è il libro sacro della comunità i cui membri non credono nel Nuovo Testamento (per quanto ne riconoscano la parziale “genuinità”), scritto da chi non avrebbe realmente compreso gli insegnamenti del maestro.

Burke sostiene di essere stato particolarmente impressionato dalla semplicità, devozione e mancanza di fanatismo (frequente, a suo giudizio, presso altre minoranze religiose) dei membri di questa comunità convinti che un giorno la verità in merito a Gesù diverrà universalmente nota. A quel punto, sarà loro dovere “uscire allo scoperto” per insegnare i metodi attraverso i quali uomini e donne potranno entrare nel Regno di Dio.

[15] Massimo Introvigne, op. cit., p. 260.

[16]Di seguito il testo originale della sezione 298-C dell’Ordinanza XX del 1984:

 

“298B. Misuse of epithets, descriptions and titles, etc., reserved for certain holy personages or places.

  1. Any person of the Quadiani group or the Lahori group (who call themselves ‘Ahmadis’ or by any other name) who by words, either spoken or written, or by visible representation;
    1. refers to, or addresses, any person, other than a Caliph or companion of the Holy Prophet Muhammad (peace be upon him),as ‘AmeerulMumineen’, ‘Khalifa-tui-Mumineen’, ‘Khalifa-tul-Muslimeen’, ‘Sahaabi’ or ‘Razi Allah Anho’
    2. refers to, or addresses, any person, other than a wife of the Holy Prophet Muhammad (peace be upon him) as ‘Ummul-Mumineen’
    3. refers to, or addresses, any person, other than a member of the family (Ahle-bait) of the Holy Prophet Muhammad (peace be upon him), as ‘Ahle-bait’; or
    4. refers to, or names, or calls, his place of worship as ‘Masjid’;

shall be punished with imprisonment of either description for a term which may extend to three years and shall also be liable to fine.

  1. Any person of the Quadiani group or Lahori group (who call themselves Ahmadis or by any other name) who by words, either spoken or written, or by visible representation, refers to the mode or form of call to prayers followed by his faith as ‘Azan’ or recites Azan as used by the Muslims, shall be punished with imprisonment of either description for a term which may extend to three years, and shall also be liable to fine.
  2. Person of Quadiani group etc., calling himself a Muslim or preaching or propagating his faith.
    Any person of the Quadiani group or the Lahori group (who call themselves ‘Ahmadis’ or by any other name), who, directly or indirectly, poses himself as Muslim, or calls, or refers to, his faith as Islam, or preaches or propagates his faith, or invites others to accept his faith, by words, either spoken or written, or by visible representations, or in any manner whatsoever outrages the religious feelings of Muslims, shall be punished with imprisonment of either description for a term which may extend to three years and shall also be liable to fine.”

 

[17]Gualtieri Antonio, The Ahmadis, community, gender and politics in a Muslim society, McGill Queen University Press, Quebec -Canada-, 2004, p. 43, traduzione mia.

[18]Friedmann Yohanan, Prophecy Continuous. Aspects of Ahmadi Religions Tought and Its Medieval Background, University of California Press, Berkeley-Londra, 1989, p. 1, traduzione mia.