Dharamshala: il richiamo della montagna e del Buddhismo Vajrayana

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 Era il 1959 quando il Dalai Lama, in fuga a piedi dall’altopiano tibetano, venne accolto dal governo indiano che gli consentì di insediarsi a Dharamshala.

La città, nello stato dell’Himachal Pradesh “la terra dei picchi eternamente innevati” si divide in due sezioni, distanti quattro chilometri di strada rigorosamente in salita e ricca di tornanti: Dharamshala e, ad un’altitudine maggiore (circa 1980 metri), McLeod Ganj.
La comunità tibetana si radicò soprattutto a McLeod Ganj, particolarmente compatibile per ragioni climatiche, nonchè per i rilievi della catena del Dhauladhar che sovrastano, severi e carismatici, la cittadina. A metà strada tra le due località, a Gangchen Kyishong, si insediò presto il governo in esilio.
Oggi Gangchen Kyishong è un’area frequentata non solo dai membri dell’establishment tibetano ma anche da un congruo numero di simpatizzanti, solidali con le sofferenze del popolo del tetto del mondo. Poco distante dall’edificio del parlamento in esilio è possibile visitare ed utilizzare la Library of Tibetan Works and Archives, una biblioteca con una sezione dedicata ai tradizionali manoscritti ed una discreta emeroteca, dove è anche disponibile la rivista dell’ISIAO (Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente, fondato agli inizi degli anni ’30 dallo studioso e tibetologo Giuseppe Tucci).
Nello stesso edificio, al secondo piano, è possibile fruire di una sala di meditazione, accessoriata con cuscini e materassini, dove si tengono corsi attinenti. Sulle pareti, anche lungo le scale, sono esposte molto fotografie storiche del “paese delle nevi”: i suoi diversi ceppi etnici, i diversi costumi, i paesaggi montani, laghi, fiumi, ecc… Al terzo piano c’è una piccola sala per la raccolta di “testimonianze orali” ed una sala-conferenze molto modesta, con vecchie poltroncine di pelle usurata, un vissuto orologio al muro, ugualmente incorniciato di pelle e fermo alle 10.00. Quella sala mi è sembrata molto “tibetana”, dati il sedimento del tempo palpabile tra le mura, l’abolizione dello stesso espressa dalle lancette inesorabilmente immobili dell’orologio vissuto ed un sobrio distacco dalla dimensione mondana e da istanze pur cautamente moderniste. La cultura tibetana, naturalmente, è molto di più di questo ma quanto della sua essenza ci è veramente accessibile? La terrazza della biblioteca offre una bella vista sulle montagna circostanti e, a corto raggio, sul piazzale del parlamento in esilio che non ho avuto difficoltà a visitare e fotografare. Il parlamento è generalmente vuoto (i membri si riuniscono 2 volte all’anno, a marzo e a settembre) e colpisce per una sostanziale assenza di pomposità.
Ricordo a Sarnath un sobborgo di Varanasi dove il Buddha tenne il suo primo sermone, avviando la ruota del dharma ebbi il primo approccio con la cucina tibetana. Feci quello che in genere non faccio mai: mi alzai dal tavolino un po’ sbilenco del misero ristorante, pagai il conto ed andai via, lasciando la zuppa ed il thè alla compassione dei padroni.
Dharamshala, notoriamente più tibetana che indiana, mi ha dato modo di riconsiderare le pietanze ed i sapori tibetani. Vicino al Namgyal Monastery di McLeod Ganj, dove si trova il Tsugalgkhang (equivalente “esiliato” del Jokhang Temple di Lhasa), con il suo statuario Buddha Sakyamuni affiancato da Avalokitesvara, celebre divinità tibetana della compassione di cui il Dalai Lama sarebbe un’incarnazione e Padmasambhava (Guru Rimpoche), il monaco indiano che introdusse il buddhismo in Tibet nell’ottavo secolo dopo Cristo, ci sono due modeste venditrici di momo.
I momo sono il piatto tipico tibetano, ricordano i ravioli al vapore (disponibili ormai anche nelle periferie delle nostre città in un qualunque ristorante cinese) e sono ripieni di verdure o patate, almeno nella versione vegetariana.
Mi sono seduto più volte su un tavolino ancora sbilenco nella parte retrostante i loro bollitori sulla strada. Spendendo appena due rupie a pezzo ho potuto, in un paio di occasioni, gustare un buon pasto e godere, in un caso, della vicinanza di un monaco tibetano cui le venditrici hanno forzatamente regalato un momo provando a sintonizzarmi con il suo diapason di pace. È questo un bello scorcio della McLeod della strada dove anche si vendono tanti oggetti di rigatteria direttamente dal tetto del mondo: vecchie borsette, piccoli o grandi pugnali, collane di corallo, di turchese, tante pietre preziose e, soprattutto, semipreziose, DVD di film sul Tibet o affini: Sette anni in Tibet, Kundun, lo splendido Samsara di Pan Nalin, ambientato nell’altrettanto splendido Ladakh (il “piccolo Tibet indiano”) ed un bellissimo Milarepa di Neten Chokling, con attori presi direttamente dalle montagne, quasi intaglianti nella roccia.
McLeod Ganj, tuttavia, con i suoi ristoranti, alcuni pretenziosamente italiani, i suoi caffè a misura di occidentali avvolti in un’aura di sobrio esistenzialismo, i suoi negozi di vestiti ed artigianato, è un posto quasi insopportabilmente caotico se confrontato con quanto si trova più in alto. La storica Lonely Planet segnala il borgo di Bhagsu, sicuramente più tranquillo ma io mi sono spinto a 2100 metri, dove si iniziano a vedere volare le aquile: a Dharamkot. È questo il posto che consiglio a chiunque volesse visitare la zona. È un po’ fuori mano ma servito da tuk tuk (simili alle nostre apecar) e taxi a prezzi ragionevoli. Offre buone accommodations e buoni ristoranti e qualche interessante negozio di cristalli e gioielli ma soprattutto passeggiate impareggiabili, facendo attenzione ad un orso che ogni tanto crea allarme. A meno di un’ora a piedi da Dharamkot è raggiungibile un villaggio puro di montagna, Nandi, dove ho recentemente scoperto una Shanti guest-house. A Nandi mancano buoni ristoranti ed anche negozi che rispondano alle esigenze dell’occidentale medio ma ci sono splendide terrazze coltivate a grano, l’odore intenso del letame, l’autenticità dei contadini montanari locali e modesti picchi con tempietti a divinità hindu e piccoli piazzali dove sedere in terra godendo dell’abbraccio della montagna. Ancora da Dharamkot, con una passeggiata un po’ più impegnativa, si possono raggiungere le cascate di acqua pura da un ghiacciao poco più in alto. Un’acqua freschissima e potabile, addirittura: un’autentica rarità in India. Tutto questo può dare la forza, di ritorno a McLeod, per affrontare la visita del Tibet Museum dove è raccontata la tragedia del popolo tibetano. La visita si conclude davanti alla fotografia luminosa del Dalai Lama che rivendica l’autonomia, non l’indipendenza, per il suo paese, con l’auspicio di farne un’oasi di ecologia, democrazia e spiritualità. Potrebbero quasi sembrare parole da slogan elettorale ma vedendo le montagne di Dharamashala e, pur in vissute fotografie, gli splendidi paesaggi tibetani, si sarebbe quasi tentati di attendere fiduciosi…

 

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