La grande sfida della società plurale; intervista a Raffaella Di Marzio

Posted in Blog

La grande sfida della società plurale; intervista a Raffaella Di Marzio

Raffaella Di Marzio, insegnante di religione cattolica, laureata in Psicologia, Scienze dell’educazione, Scienze storico-religiose, membro del direttivo della SIPR (Società Italiana della Psicologia della Religione). Impegnata da anni in attività di formazione e insegnamento in ambito accademico, scrive regolarmente su riviste specializzate. È tra i collaboratori dell’Enciclopedia delle religioni in Italia, a cura del CESNUR (Centro Studi Nuove Religioni).

Di seguito un’intervista che ha gentilmente concesso a Viverealtrimenti (curata da Manuel Olivares) a partire dalla lettura del suo ultimo testo Nuovi movimenti religiosi, una sfida educativa. 

 

«Nel contesto multiculturale e multireligioso contemporaneo i Nuovi Movimenti Religiosi rappresentano una vera e propria sfida educativa, che va inquadrata nel panorama generale di una società che risulta, secondo i dati sociologici, ancora prevalentemente orientata in prospettiva religiosa (Berzano, 2010).

Vanno in questa direzione, per esempio, i dati di Stark (2015), tratti da una ricerca che raccoglie un milione di interviste realizzate in 163 paesi: l’81% della popolazione mondiale s’identifica con una religione o chiesa, il 74% considera la religione importante, il 50% afferma di aver partecipato a un servizio religioso negli ultimi sette giorni, il 56% crede che Dio sia direttamente coinvolto in tutto ciò che avviene, mentre gli atei e agnostici, nel mondo, contano all’incirca il 5% della popolazione. Solo in Sud Corea, Vietnam e Cina il numero degli atei supera il 20% (Ivi, p. 14).

Inoltre, quando si parla di religione, è importante, secondo quanto sostiene Davie (1994) riferendosi in particolare alla Gran Bretagna, distinguere fra believing (le credenze religiose) e belonging (l’identificazione con un’istituzione religiosa), poiché, nella società contemporanea, l’atteggiamento che l’autrice chiama believing without belonging risulta sempre più diffuso (Davie, 1994, p. 2). Anche nella letteratura sociologica contemporanea, si ribadisce che la secolarizzazione non sembra riguardare tanto le credenze (poiché ateismo e agnosticismo non crescono) quanto i comportamenti, poiché, in tutti i settori della vita la religione sembra non avere più un ruolo effettivo nell’orientare le scelte individuali».

Raffaella Di Marzio, I nuovi movimenti religiosi, una fida educativa, Passione Educativa, Roma, p. 17

 

-Cara Raffaella la lettura del tuo libro mi ha dato diversi spunti in merito alla religione in generale oltre che ai nuovi movimenti religiosi. È ad esempio riaffiorata alla mia memoria la categoria, trovata sui libri di Mircea Eliade, dell’Homo Religiosus (che possiamo considerare come alternativa a quella di Homo Oeconomicus).

Quanto pensi abbia senso, oggi, considerare il concetto eliadiano quale punto di partenza per ripensare la natura stessa dell’uomo e, di conseguenza, migliori sistemi di convivenza sociale?

L’ Homo Religiosus viene definito dalla sua esperienza religiosa, che si manifesta in un determinato contesto socioeconomico e culturale. Questo dato di fatto obbliga gli studiosi di religioni a prendere contatto e osservare ogni forma religiosa così come si manifesta e si incarna oggettivamente. Anche se l’aspirazione alla trascendenza è un tratto essenziale dell’Homo Religiosus essa si riveste di forme diverse che ovviamente sono accettate e promosse nella terra d’origine ma che possono generare ostilità, discriminazione e persecuzione in contesti diversi. Non credo sia possibile, oggi, ripensare la natura dell’uomo sulla scia del pensiero di Eliade poiché, anche se io lo condivido, quello di Eliade è un orientamento condiviso da molti, ma non certo universale. Ci sono, infatti, persone che si sentono molto distanti da questa idea che vede il sacro come qualcosa che fa parte dell’essenza stessa dell’uomo. Credo, invece, aldilà di quella che può essere la nostra idea sulla “natura” dell’uomo, che riconoscere, comunque, che per molte persone la fede religiosa è di importanza vitale nella loro esistenza, possa favorire una migliore convivenza sociale, poiché “con-vivere” significa assicurare a ciascuno il proprio diritto ad esistere e vivere secondo i propri valori, religiosi o non religiosi. Ciò che le istituzioni hanno il dovere di fare è favorire questa convivenza, in modo che non vi siano prevaricazioni di alcun genere e le leggi siano rispettate da tutti. Il problema è che, purtroppo, quando un’istituzione approva una legge ingiusta e discriminatoria, violando la libertà religiosa di un gruppo, la convivenza viene compromessa con l’inevitabile conseguenza dell’insorgere di conflitti più o meno gravi. L’unico sistema di convivenza sociale che può funzionare è un sistema equo, le cui leggi siano rispettose della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo. In pratica, tuttavia, gli apparati legali di molte nazioni si fondano su leggi in aperta contraddizione con i principi sanciti dalla Dichiarazione. La conseguenza di questo stato di cose è il deterioramento della pacifica convivenza tra persone di fedi diverse, che può arrivare fino alla violenza e ai massacri a cui assistiamo quotidianamente, che non sono perpetrati solo da alcuni musulmani, ma sono compiuti da persone che appartengono anche ad altre denominazioni religiose.

 

-Noi abbiamo nella Comunità Islamica Ahmadiyya un buon amico comune. Sei stata recentemente al Peace Symposium di Londra come sanno tutti coloro che ci seguono sui social. Innanzitutto ti chiederei un’opinione sulla comunità, ad iniziare dalla questione se possa, a tuo parere, essere considerata o meno un nuovo movimento religioso.

Durante una conferenza presso la sede italiana degli Hare Krishna mi è stata fatta la stessa domanda, se cioè il movimento degli Hare Krishna si può considerare un Nuovo Movimento Religioso. Ho risposto che, in un certo senso, lo è, per diversi motivi, ma ho anche precisato che quando uno studioso inserisce un movimento dentro una “categoria” sa bene che la sua è solo un’ipotesi utile per descrivere una realtà che è molto più complessa di quello che può apparire da una definizione come questa: “gli Hare Krishna sono un nuovo movimento religioso”. In effetti i membri del movimento mi hanno fatto notare che la tradizione induista da cui proviene il loro gruppo è antichissima e quindi non si può definire “nuova”. Questo è vero, ma anche l’aggettivo “nuovo” significa qualcosa solo se si fa riferimento a qualcos’altro: nuovo rispetto a chi? O a cosa? In questo senso è innegabile che gli Hare Krishna storicamente nascono come un piccolo gruppo di seguaci di Prabhupada, nel 1966, a New York dove egli fonda la International Society for Krishna Consciousness (“Società Internazionale per la Coscienza di Krishna”, ISKCON), popolarmente conosciuta come movimento Hare Krishna. Oltre a questa motivazione storica, il movimento Hare Krishna, in Italia, si potrebbe definire “nuovo” nel senso non temporale ma “sostanziale”, poichè le sue dottrine e pratiche, di matrice induista, risultano “diverse” rispetto alla nostra tradizione culturale e religiosa, che è cristiana.

Partendo da questo esempio, se ci riferiamo agli Ahmadiyya, potremmo ipotizzare la medesima definizione, anche se questa volta la tradizione originaria da cui il movimento proviene è la religione islamica. In effetti, storicamente la comunità nasce da Mirza Ghulam Ahmad (1835-1908) che, nel 1889, annuncia di avere ricevuto una rivelazione divina e forma una comunità affermando di essere insieme il masih (messia, lo stesso titolo dato a Gesù dai musulmani) e il Mahdi atteso per i tempi ultimi per restaurare la fede. In questo senso, la Comunità Ahmadiyya si potrebbe inserire tra i “nuovi” movimenti religiosi, analogamente agli Hare Krishna. E’ importante tuttavia non limitarsi a definire un movimento, perché qualsiasi categorizzazione va esplicitata. Quindi, per evitare fraintendimenti e incomprensioni, chiunque sia interessato a conoscere gli Ahmadiyya deve studiare e approfondire tutta la loro storia, che può essere compresa solo se la si inserisce nella sua tradizione di riferimento, e cioè l’Islam.

Ho conoscito la comunità a Londra, in occasione del loro Simposio e ho espresso la mia opinione nell’articolo che ho scritto dopo l’evento: Pace, dialogo e non violenza nel Simposio mondiale di Ahmadiyya. In estrema sintesi, ci sono alcune cose che mi hanno colpito in quell’occasione, tra le quali l’esperienza di trovarsi in una comunità di persone la cui esistenza è fortemente caratterizzata da una profonda spiritualità che investe ogni aspetto della loro esistenza. Tale convinzione tuttavia non rimane un fatto privato, ma si trasforma in forme di attivismo aperte e propositive anche a livello sociale e culturale, che mirano a dimostrare, anche quando un certo contesto tende ad escluderli che, grazie alla fede, gli Ahmadiyya possono e devono mettersi a disposizione dell’altro indipendentemente dalle sue credenze religiose e indipendentemente dal fatto che sia un amico o un nemico. Tutto questo è sintetizzato nel loro motto: “amore per tutti, odio per nessuno”. Gli Ahmadiyya si presentano al mondo con un volto pacifico restituendo all’Islam quell’immagine che è stata brutalmente offuscata da coloro che usano questa religione per giustificare massacri e violenze di ogni genere.

 

-Per come sto avendo modo di frequentarli, gli Ahmadiyya sembra proprio riescano a creare, nei propri incontri e attraverso molte loro attività, un clima di genuina fratellanza. Dopo la dicotomia Homo Religiosus VS Homo Oeconomicus (per quanto si possa, naturalmente concedere che in noi coestistano entrambe le attitudini), te ne proporrei un’altra: Homo Homini Lupus VS Homo Homini Frater. La fratellanza è un concetto trasversale al Cristianesimo e all’Islam (solo per citare i due soggetti più importanti). Pensi sia ancora possibile considerarla una pietra angolare del mondo di domani o che abbia risentito in modo, oramai irreversibile, del ritardo della Parusia?

Io penso che il valore della fratellanza sia stato messo a dura prova da quando esiste l’umanità, ancora prima della nascita delle grandi religioni e che ci siano sempre stati gruppi umani che hanno considerato gli altri esseri umani come “inferiori” agendo nei loro confronti come se fossero esseri di una “razza” inferiore da usare e poi calpestare. Purtroppo non c’è alcuna religione che possa affermare di non avere responsabilità in questo senso perché essere “umano” vuol dire anche essere “peccatore”, colpevole di coltivare nel proprio intimo quell’anelito che spinse Lucifero a ribellarsi al suo creatore: superbia, potere e dominio. L’uomo che crede di essere un dio prima o poi assoggetterà altri esseri umani e non si sentirà fratello di nessuno, se non di se stesso. Io penso che questa sia una tendenza presente in ogni essere umano, e quello che mi colpisce davvero, guardando alla storia dell’umanità e delle religioni, nel contesto politico sociale e culturale in cui si sono manifestate, è constatare che, nonostante tutto, non solo l’umanità esiste ancora, ma che miliardi di uomini e donne di questo pianeta hanno trasformato il desiderio di essere “dio”, superiore a tutti gli altri, nel desiderio di essere “uno” con tutti gli altri, fratelli e sorelle della stessa grande famiglia umana. Se guardiamo a questo “miracolo” io credo che potremmo affermare che la “parusia” è già iniziata e non è ancora compiuta, ma sta avvenendo ora, in forma parziale, ma c’è, e, per chi ha fede, l’attesa della Parusia annunciata dalle Scritture si nutre di speranza, poiché oggi, qui ed ora, se ne vedono i primi segni. Io credo che la fratellanza sia la sola pietra angolare che sta tenendo, davvero,  in piedi l’umanità. Non so come sia possibile, ma la trovi sui campi di battaglia, in mezzo alle baracche, dentro le case, negli ospedali, ovunque, e ha il volto di una persona, di un essere umano che si sente fratello di un altro e come tale riesce a mettersi al suo servizio gratuitamente.

 

-Leggo alle pagine 34 e 35 del tuo libro:

«Negli anni Sessanta e Settanta, l’uso, da parte dei giovani, di sostanze psichedeliche in contesti spirituali e religiosi, portava alla sperimentazione di stati alterati che venivano interpretati come esperienze spirituali. Secondo […] [diversi autori] non ci sono dubbi sul fatto che queste esperienze hanno cambiato profondamente la vita religiosa di molte persone».

Per quanto riguarda la situazione attuale, è il mondo virtuale che rappresenta, per le giovani generazioni, e non solo, il “luogo” dove incontrare gli altri, comunicare e interagire spiritualmente, socialmente e politicamente. Questi sviluppi culturali fanno pensare che internet avrà importanti ripercussioni anche per le congregazioni religiose, incluso il modo in cui saranno strutturate e dirette in futuro e il modo in cui cambieranno l’istruzione religiosa, le forme di proselitismo e la stessa pratica religiosa

[…]

Riporti quanto scrivono alcuni autori nei loro testi (citi Levenson et al) i quali affermano che «la religione in internet si svilupperà ulteriormente e contribuirà al declino della religione autoritaria».

E poi che…

«Questi autori sottolineano che internet riesce a influenzare, in particolare, le pratiche di quei fedeli che preferiscono meditare, fare volontariato e parlare di spiritualità con i propri amici, piuttosto che studiare, pregare nel gruppo e rivolgersi ai “professionisti” della religione: ciò farebbe di queste persone dei nomadi spirituali, alcuni dei quali manifestano il loro nomadismo dando origine a un sistema di credenze individualizzato, attraverso l’acquisizione e l’interpretazione personale di elementi provenienti da diverse religioni».

Insomma, venendo alla mia domanda, mi sembra ci siano i presupposti per iniziare a concepire lo sviluppo di una “religione liquida” in una “società liquida”.

Che ne pensi?

Io penso che la “religione liquida” sia ormai un dato di fatto, che, però, non ha significato la fine delle forme religiose organizzate e istituzionali, anche quelle nelle quali c’è una forte tendenza alla gestione gerarchica del potere spirituale. Può sembrare una contraddizione, ma non è altro che un fenomeno a doppio binario che rispecchia l’enorme complessità del mondo in cui viviamo. Anche nella società esistono entrambe le tendenze, alla strutturazione e gerarchizzazione dei poteri e all’individualismo e protagonismo indipendenti.

 

-Leggendo il tuo libro mi è venuta in mente un’altra questione cruciale: la centralità dell’uomo in molti nuovi movimenti religiosi. Un uomo che può fare a meno di Dio, quando non pensare di essere in grado di diventare lui stesso Dio. Una prospettiva che si oppone a quella tradizionale, del mondo Giudaico-Cristiano-Islamico, che pone Dio al suo centro. Dunque ti provoco con un’altra dicotomia: centralità dell’uomo VS centralità di Dio.

Quanto pensi sia necessario rimettere Dio al centro del nostro mondo, con tutte le implicazioni politiche, sociali ed economiche che ne conseguono?

Credo che sarebbe pericoloso cercare di mettere Dio al centro del mondo. Intanto bisognerebbe decidere quale Dio scegliere … e già questo sarebbe fonte di conflitti. Qualcuno potrebbe dire che il Dio da mettere al centro del mondo è lui stesso… qualcuno potrebbe affermare che l’unico Dio degno di essere al centro del mondo è Lucifero. Come si potrebbe vivere tutti in un mondo dove ciascuno vorrebbe che governasse il suo Dio? Non viviamo più in una società dove tutto, compresa la scienza, si genuflette davanti al Dio dei cristiani e quando quel mondo esisteva, ha contribuito a creare ingiustizie e persecuzioni, guerre di religione e ingiustizie senza fine.

 

-Che margini di dialogo pensi ci possano essere, da parte cattolica, con membri di nuovi movimenti religiosi rispetto, ad esempio, a membri di religioni tradizionali?

Per un cattolico il dialogo con persone appartenenti ai nuovi movimenti religiosi è più difficile, rispetto a quello che si instarura con le religioni monoteiste perché la maggior parte di questi gruppi professa dottrine molto lontane dalla tradizione cristiana e cattolica. Tuttavia, per esperienza personale e dopo tanti anni di contatti e studi di questi gruppi, posso testimoniare che se davvero si vuole cercare il dialogo lo si può realizzare con tutti, purchè ci sia la stessa intenzione dall’altra parte. Inoltre, il dialogo non è possibile se il cattolico o l’altra parte lo considerano un modo per far cambiare l’interlocutore o per convincerlo a cambiare le sue convinzioni o i suoi comportamenti. Il dialogo presuppone che chi parla consideri l’altro un suo pari e non si ritenga detentore della verità. Quindi, perché ci sia un dialogo reale i due che comunicano devono essere persone di dialogo, devono cioè possedere quei tratti di personalità, quella sensibilità e quell’umiltà che dà loro le capacità di base per entrare in dialogo con l’altro. Siamo in un’epoca di “finti” dialoghi, di eventi e notizie ridondanti su persone che parlano per giorni di dialogo senza mai riuscire a dialogare realmente con nessuno. Il dialogo si realizza tra persone, nel mondo reale e nella quotidianità, recandosi nei luoghi in cui le persone vivono e soffrono, mettendosi in atteggiamento di ascolto, perché, secondo me, se si vuole dialogare davvero, la prima cosa da fare è tacere e ascoltare.

 

-In generale, che chances pensi abbia il dialogo interreligioso di contribuire alla realizzazione di una equilibrata società plurale che ha oramai fatto decisa irruzione nella storia?

Il dialogo interreligioso è l’unica via se vogliamo vivere in pace. Tuttavia il dialogo interreligioso non basta quando le autorità statali agiscono in modo non neutrale prediligendo una religione rispetto alle altre. Per quanto i credenti possano dialogare tra loro, la disuguaglianza dei diritti inevitabilmente causerà conflitti e disordini piu o meno gravi.

 

-Una società plurale (oltre che, come si diceva prima, liquida) dove, più che tentare di convertire chi aderisce a un’altra religione alla propria, sarebbe forse più saggio imparare a convivere tra membri di religioni diverse, riconoscendo in ciascuno la valorizzazione dell’Homo Religiosus.

Penso al teologo Paul Tillich e alla sua ipotesi secondo cui sarebbe stato un grande passo in avanti, per il Cristianesimo, accettare di lavorare sul dialogo più che sulle conversioni...

Tentare di convertire gli altri è un aspetto ineliminabile di molte denominazioni religiose anche se i metodi di proselitismo sono diversi. Il fatto è che se una organizzazione religiosa vuole sopravvivere deve attrarre sempre nuovi proseliti, altrimenti si estingue. Inoltre, il proselitismo implica che il credente si senta impegnato a fare in modo che anche altri condividano la sua fede perché, a suo avviso, è la scelta migliore che si possa fare nella vita. Il proselitismo, perciò, non va considerato solo come un’azione di tipo utilitaristico perche non è solo questo, è molto di più: è un modo per donare a un altro un bene spirituale che si possiede e che si ritiene di dover condividere per il bene della persona contattata. Ovviamente, cercare di convertire qualcuno non significa costringerlo o usare mezzi illeciti.

 

-In ultimo, cosa mi vuoi dire di un fenomeno che sembra davvero in grande crescita e che, secondo alcuni (forse un po’ “apocalittici”) si stia guadagnando ogni giorno maggiore spazio nel dominio del mondo: il satanismo?

L’unico dominio che il satanismo si é guadagnato è quello che gli hanno regalato i media. In effetti, molto spazio viene dato al fenomeno del satanismo dai media perché questo tipo di notizie fa audience. I sociologi e gli esperti sanno che il satanismo è un fenomeno molto limitato nei numeri. Inoltre, esistono diversi tipi di satanismo di cui i media non parlano perchè non fanno notizia. Basta guardare la sezione dedicata  a questi gruppi nell’ Enciclopedia del CESNUR, per capire di cosa stiamo parlando. Diverso è il caso di quei gruppuscoli di giovani che chiamano “satanismo” le loro orgie e le loro attività autolesive, in cui si fa uso di stupefacenti e alcool e talvolta si commettono reati più o meno gravi. Queste forme di devianza giovanile organizzata vengono identifcate come “grupppi satanici” ma si tratta di fenomeni patologici legati alle problematiche di chi vi si aggrega. Questi giovani emarginati e isolati dalla società si identificano con un “satanismo fai da te” che può dare loro una collocazione, seppure deviante, nella società. Pubblicizzare questi fenomeni serve solo a provocare l’imitazione da parte di altri, non serve a prevenire le violenze o i crimini. Per prevenire bisogna agire attraverso la famiglia e  la scuola, con il supporto di specialisti di devianza giovanile. Agli “apocalittici” che affermano che il satanismo “sta guadagnando ogni giorno maggiore spazio nel dominio del mondo” io direi che oggi il dominio del mondo è in mano a chi possiede più denaro, e che è il denaro il “demonio” che governa il mondo.