L’ecovillaggio che non fu

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Dopo la serietà fascinosa del templarismo moderno, concediamo al faceto il proprio legittimo spazio. Il post che segue riprende un brano dal mio primo libro sulle comunità intenzionali e gli ecovillaggi (Comuni, comunità, ecovillaggi in Italia) che ha fatto ridere di gusto la maggior parte di coloro che l’hanno letto. E’ il resoconto di un’esperienza vissuta in prima persona, di un tentativo sostanzialmente fallimentare di dare vita ad un progetto di ecovillaggio sui Monti Prenestini, poco distante da Roma. Vuole essere una finestra su alcuni velleitarismi ed elementi grotteschi del mondo cosiddetto alternativo. Al di là di alcune visioni apologetiche del fenomeno comunitario, va detto che velleitarismi del genere non sono ancora così circoscritti come sarebbe auspicabile. Buon divertimento…

Era l’estate del 1999 ed ero appena uscito da quel cesso che è l’università italiana.
Ero anche reduce dalla decentrata capitale fricchettonica d’Italia: la Confederazione dei Villaggi Elfici.
Vengo a sapere che a Ciciliano, a quaranta chilometri da Roma, alcune persone stanno tentando di realizzare un progetto di ecovillaggio.
Mi sento divorare dal sacro fuoco dell’autogestione e parto una mattina in pullmann con la fidanzata e la cagnetta Lula, un regalo degli elfi, prodotto di incroci multipli ed audaci.
Arrivati in paese il posto che ci interessa è in culo al mondo. Meglio, in culo al monte.
Chiediamo.
Ci sono tre chilometri e mezzo da fare a piedi. Manco a dirlo in salita.
La strada è una mulattiera. Aspra.
Ai lati della strada troviamo, di tanto in tanto, resti di grossi serpenti.
Gli stessi che a Cocullo, in Abruzzo, a pochi chilometri, durante la famosa festa dei serpari, impecettata con l’icona di San Domenico, grondano dalla statua del santo portata in processione o si aggrovigliano al collo ed alle braccia dei bambini.
Loro, i bambini, li vanno a recuperare lì, sui Monti Prenestini, a due passi da Ciciliano, proprio dove quel giorno stiamo scarpinando noi, in cerca del cantiere dell’ecovillaggio.
Saliamo e saliamo. Arriviamo in prossimità di una baracca di lamiere arruzzonite.
Ce ne avevano parlato i ragazzi a valle.
Gli aspiranti ecovillagisti debbono essere in prossimità della baracca.
Iniziamo dunque a strillare: ragazzi, ci siete? C’è qualcuno?
Nessuna risposta.
Ci sono una trentina di vacche e tori e vitellini al pascolo brado e ossa e teschi sempre di bovini.
C’è anche una coppia di maremmani.
La femmina ringhia paurosamente a Lula.
Faccio appena a tempo a levargliela da sotto le fauci.
Stiamo per andare via quando vedo un ragazzo, a torso nudo.
Gli faccio cenno.
Ci vede e vuole che ci avviciniamo. Ci mostrerà l’area, piuttosto imboscata.
Dalla strada non si vedeva, coperta dal baraccone, vecchio ricovero di animali.
Si sviluppa all’interno di un recinto in legno.
Non c’è quasi niente.
Solo una cucina economica sotto alcuni alberi, attrezzi ammucchiati sotto altri alberi -vanghe, pale, rastrelli, seghetti-, uno spazio per il fuoco, un po’ di legna ed una tenda canadese.
Ci dormono lui e lei, che nel frattempo si avvicina e si presenta.
Parliamo.
Ci parlano del progetto dell’ecovillaggio.
Ci sarebbe da costruire una lestra, la capanna tradizionale del buttero laziale, una specie di perla di funzionalità.
“Non è difficile farla”, mi dicono, “poi si è seguiti da un bioedile”, un personaggio che avrei conosciuto di lì a poco.
Bisognerà recuperare canne di palude, tagliandole alla lune piena ma, per prima cosa, c’è da scavare le fondamenta.
Lo spazio dove dovrebbe sorgere la lestra è appena fuori dal recinto.
Qualcuno ha scavicchiato qua e là ma per arrivare a predisporre le fondamenta c’è ancora tanto da fare.
“I costi sono praticamente ridotti a zero”, mi dice lui, “le ore di lavoro incalcolabili!”.
Quei terreni, del resto, sono troppo sfigati!
Mi entusiasmo: “sì, verrò, vi aiuterò e faremo l’ecovillaggio e dopo questa lestra ne faremo tante altre ed ognuno avrà la sua e faremo una biblioteca comune”…
Lui si entusiasma a sua volta.
Dopo alcuni giorni sono di nuovo lì, questa volta solo con Lula.
Nel frattempo ho arruolato una coppia di romani, con al seguito amico single.
Arriviamo sul cucuzzolo, eludendo gli sguardi minacciosi dei tori che se ti avvicini troppo alle mucche iniziano ad andare in ebollizione.
Troviamo due ragazzi.
Uno è quello della volta scorsa, l’altro è famoso per scandalizzare le paesane con i suoi tatuaggi da galera e per questo viene spesso ripreso dai compagni: “sei troppo fricchettone, non puoi pretendere che le vecchiette del vicolo ti accettino così come sei!”.
Si riparla del progetto della lestra.
L’entusiasmo è alle stelle ma nessuno prende un attrezzo in mano.
I romani, comunque, debbono tornare in città.
“Tranquilli”, ci dicono, “in due giorni siamo di nuovo qui”.
“Bene”, dico loro in uno slancio di incontenibile comunitarismo, “visto che tornate a Roma, innaffiatemi le piante e trattenetevi pure a casa mia tutto il tempo che volete. Ecco le chiavi!”.
Niente di male, per carità, si porrà solo un problema serio quando, volendo lasciare l’ameno cucuzzolo, non saprò dove andare.
Loro, difatti, non sarebbero più tornati a Ciciliano, li avrei rivisti successivamente a Roma ma per rientrare in casa avrei dovuto faticare a reperire un altro mazzo di chiavi.
Andiamo per gradi.
Resto con i due sul cucuzzolo.
La prima nottata è proprio splendida.
Raccolgo tante more e poi ce ne stiamo tutti e tre davanti al fuoco a filosofeggiare.
Lula, però, è maltollerata da uno dei due che, pur facendo professione di fricchettonismo, odia i cani.
La cosa mi fà sorridere.
“Scusa eh”, gli obietto, “se odi i cani come puoi pensare di vivere nelle comuni, dove ci sono sempre più cani che cristiani?”
Lui non ama che io rida di questa sua palese contraddizione e, il giorno dopo, mentre sfacchiniamo, carichi di buste della spesa, sulla salitona della mulattiera, inizia a menarmela: “non sono mica d’accordo con quello che mi dicevi ieri, sai?”.
“Oddio”, rispondo, “che ti dicevo ieri? Non abbiamo fatto altro che parlare tutto il giorno e meno male che dovevamo scavare le fondamenta della lestra!”.
E lui: “no, quella storia dei cani, tu ci ridevi”.
“Béh”, rispondo, “fa ridere come cosa, non ti sarai mica offeso?!”.
Lui: “no, non è che mi sono offeso, non sono d’accordo, tutto qua.  Tu tendi a dare troppe cose per scontate. Siccome sono un fricchettone devo amare i cani e siccome non li amo tu mi ridi dietro e in questo modo fai quello che fanno tutti nel mondo, o meglio, siccome in questa situazione fai parte di una maggioranza, fai quello che fanno sempre le maggioranze, discrimini le minoranze.  Io sono la minoranza e tu mi ridicolizzi, come tutte le maggioranze ridicolizzano sempre le minoranze”.
“No, ti prego”, rispondo, “fermati, non drammatizzare. Mi faceva un po’ ridere, tutto qua, io sono un allegrone”.
“Sì”, riprende lui, “ma dai troppe cose per scontate” …nel frattempo raggiungiamo l’ameno cucuzzolo.
Sono arrivate due persone. Anzi tre. Una coppia con un bambino in fasce.
Lei ha una benda da pirata su un occhio.
Lui ha un atteggiamento un po’ troppo sciolto per i miei gusti. Gira subito con il coso di fuori, poi mi mette il bambino in braccio: “me lo tieni?”.
Mentre glielo tengo inizia a imboccarlo, poi mi fa: “lo imbocchi tu, per cortesia?”
Ed io: “ma è mio o tuo questo bambino?”.
Il tizio delle minoranze, intanto, mi tiene ancora il muso.
Sono in imbarazzo. Cerco di rompere il ghiaccio: “non so, mi dispiace che Lula ti disturbi” e la richiamo e cerco di evitare che gli si avvicini.
Ma lui inflessibile: “lo sai, non è questo il problema!”.
L’ha presa proprio storta!
Il tatuatone, intanto, è sparito.
È l’opposto di quello delle minoranze. Ama troppo i cani. Quindi che combina?
Viene a sapere che in paese il sindaco ha fatto rinchiudere tutti i randagi in un canile. Raggiunge il paese, denuncia il sindaco adducendo motivazioni assurde, va al canile, firma e si prende in carico i randagi.
Sono quattro-cinque.
Li riporta a Ciciliano e li libera in mezzo alla strada. Poi se ne va.
Il sindaco lo denuncerà per abbandono di animali e farà rinchiudere nuovamente i randagi nel canile.
Sconfitto, il nostro finirà in un paese limitrofo. Non si saprà più nulla di lui. Le ultime notizie lo daranno ubriaco a parlare da solo e a sbraitare in mezzo alla strada.
Viene sù pure il bio-edile, autoctono di Ciciliano.
Decidiamo di andare a cena da un personaggio che abita in un posto ancora più imboscato del nostro. A cinque chilometri dal paese.
Mi accingo a percorrere la mulattiera.
“No”, mi dice lo scapestrato papà che, nel frattempo, bontà sua, si era rimesso le mutande, “facciamo una scorciatoia, tagliamo per i boschi!”.
E il bioedile: “sì, fate prima, chi ve lo fa fare di prendere la mulattiera?”.
Il bioedile ha un specie di side-car e porta sù la donna pirata.
Il “misocino” resta a presidio del recinto.
Io ed il naturista ci avventuriamo per i boschi.
Lui ha il bambino, in un seggiolino, assicurato dietro le spalle.
Ovvio dire che ci perdiamo. Siamo partiti quasi all’imbrunire. Avanza dunque, preoccupantemente, la notte.
“Vedi questi varchi tra le frasche?”, mi dice beato, “è il passaggio dei cinghiali. È pieno di cinghiali qui!”.
“Bene”, rispondo, “ma dove stiamo andando?”.
Lui: “abbiamo perso il sentiero. Ma sì, sarà di qua. Guarda non può essere che per di qua, me lo sento”.
La vegetazione è fittissima e non è vegetazione normale.
Sono quasi tutti arbusti spinosissimi. Spine lunghe come matite. In terra è tutto un roveto e noi siamo in sandali.
“Senti”, gli dico, “io scendo e prendo la mulattiera”.
“Ma no”, mi risponde lui, “siamo arrivati! Lo vedo”.
“Ma che cazzo dici!” Inizio ad aggredirlo.
Lui inizia a urlare, a chiamare prima il nostro ospite e poi la sua compagna.
Strilla come un pazzo. In realtà ha ragione.
Siamo quasi arrivati. Infatti intravediamo una rete che segna il limite del terreno del nostro ospite.
Peccato che tra noi e la rete c’è un roveto praticamente invalicabile.
Riprende a strillare: “portateci un macete, portateci un macete”.
Ci sentono ma sono tutt’altro che solleciti nell’esaudire la nostra richiesta.
Alla fine decide di valicare, costi quel che costi, il roveto.
“Ti tengo il bambino”, gli faccio io.
“Non serve”, risponde lui.
“Ma come non serve, guarda che ti ci aggrovigli qui, è profondo questo roveto, non basta che ci metti i piedi sopra per schiacciarlo, ci cadi dentro”.
Il roveto si alza per circa un metro su di una cavità. Arriva alle nostre ginocchia ma, in realtà, è molto più profondo perché bisogna considerare il dislivello tra noi e la cavità.
“Non ti preoccupare”, fa lui temerario.
Mette un piede, poi l’altro, quand’è con tutto il peso sul roveto lo vedo sprofondare tra le spine. A quel punto urla il coglione: “ahhh. Il bambino!!”
Chiama la sua compagna come un forsennato: “il bambino, il bambino, vieni a prendere il bambino!!”
Io nel frattempo mi diverto: “te l’avevo detto, scemo, ma stai tranquillo, il bambino sta bene”.
Neanche piange.
Lui è finito nelle spine fin quasi alla vita ma il bambino è assicurato più su e se ne sta tranquillo.
Vive ancora la benedizione dell’innocenza, altrimenti, con quel padre, non starebbe così sereno!
Ad ogni modo, il naturista mi ha spianato la strada.
I rovi sono stati schiacciati ed io passo senza farmi neanche un graffio.
Le sue gambe, invece, sono ridotte quasi a brandelli. Sangue, sangue. Si farà dare una tinozza d’acqua, per sciacquarsi i solchi profondi, dal nostro ospite, che se la ride di gusto.
Il giorno dopo torno al campo.
Il misocino è in partenza per la fiera dell’autogestione. Nel frattempo le paturnie gli sono passate. Mi saluta caldamente: “ci vediamo presto, così scaviamo le fondamenta della lestra”.
“Sì, sì, come no!”, gli rispondo io.
La donna pirata ed il naturista partiranno di lì a poco.
Del cinofilo, ormai, nessuna notizia.
Morale: resto solo nel recinto sull’ameno cucuzzolo.
“Ma sì”, penso tra me, “adesso arriveranno i romani”.
Campa cavallo!
Fuori dal recinto sono bradi anche due maiali cinghialati. Un paio di quintali a testa. Nino e Mina. Nino è solito avvicinarsi al recinto e metterci il muso sopra.
Credo per chiedere da mangiare. È proprio un porco!
Avevo verificato che il misocino lo sapeva governare bene.
Aveva sempre una canna di bambù vicino a sé.
Quando Nino piazzava il muso sul palo del recinto lo raggiungeva e gli strillava: “Nino, vai via, cosa vuoi, rompi sempre i coglioni!” e stèn, stèn, si sentiva il suono della canna di bambù sulla pelle rosea e coriacea del porco, che non faceva un piega, poi, dopo un po’, spontaneamente se ne andava.
Mina era più defilata.
Resto dunque in simpatica compagnia, con Lula, i due maremmani, i due porci e un sacco di vacche, tori e vitellini. I tori, ripeto, incazzosi.
Tranquillo, tuttavia, che sarebbero arrivati i romani.
La sera mi faccio un bel fuoco. Stò tranquillo. Oddio. Stò tranquillo se non penso che il paese è a tre chilometri e mezzo, che non ho un cellulare, né una torcia, solo un lumino preso dal misocino al cimitero di Prima porta.
Ha, tra l’altro, lo stoppino difettoso e fà una lucetta fioca. Patetica.
Stò tranquillo se non penso che subito fuori del recinto ci sono due maiali cinghialati che non mi conoscono e che forse non saprei gestire se facessero irruzione nel mio spazio.
“Ma perché farsi tante paranoie”, penso tra me, “ti pare che vanno a fare irruzione?” La notte stessa la faranno.
Gli alberi davanti al recinto, poi, sono così tetri, con quelle lunghe liane legnose di Vitalba, mi sembra lo scenario del film Chi è sepolto in quella casa, con le liane che ad un certo punto si allungano e strangolano uno dei ragazzi uscito a fare pipì.
“Mah”, penso tra me, “godiamoci le stelle, il fuoco, si sta così bene! Lontano dai rumori della città!”
Dopo un po’ me ne vado a letto.
Lula è terrorizzata.
La porto con me nella tenda.
Ci addormentiamo.
Mi risveglio bruscamente.
Ci sono dei rumori fortissimi, come bufali al galoppo e poi…pentole che si rovesciano…merda! Sono entrati i maiali.
Esco in mutande dalla tenda. Ho con me la canna di bambù. Prudentemente me l’ero portata in tenda.
Nino e Mina scorrazzano e razziano tutto il mangiabile.
La spesa che io ed il minoritario avevamo faticosamente portato in cima.
Faccio qualche passo. “Ahi”, è pieno di spini ed io sono scalzo. Devo mettermi i sandali. “La luce, mi serve la luce. Dov’è il lumino? Sì è là”, lo accendo. Non si accende. Lo stoppino è difettoso, la fiamma patetica.
Non si vede un cazzo!
“Ahi”, le spine.
Devo cacciare le due bestie. Come fare? Mi avvicino.
Sono in preda ad un’eccitazione dionisiaca, mangiano tutto il mangiabile.
“E se si mangiano pure a me? Chi mi soccorre? Ma no, poche storie, debbono uscire!”
Alzo il bastone: “Nino, Mina, Fuori, Ehhh, fuori!”.
Colpisco Nino col bastone, penso tra me: “se mi si rivolta sono finito, cosa gli racconto? Che cosa gli starà frullando per la testa a un porco, alle tre di mattina, su questo fottuto cucuzzolo?”
“Ehhh, via, fuori di qui, bestie!!” e colpisco Nino e lui si mette a correre in tondo. “Oddio, questo non lo domo, se mi travolge m’ammazza” ed io lo schivo e lo colpisco col bastone mentre lui è praticamente impazzito e continua a correre in tondo, attorno a me.
Alla fine riesco a dirigerlo fuori del recinto.
Hanno però rotto dei pali, lui e la sua bella ed il recinto, ormai, non recinta più. Possono rientrare quando vogliono, ammesso che riesca a cacciarli fuori tutti e due. Al momento sono riuscito a buttare fuori solo Nino.
Mina si è accovacciata da un parte e non si vuole muovere, ma almeno non dà fastidio.
Alla cieca recupero martello e chiodi e rabbercio, alla meglio, il recinto.
Mina resta dentro e Nino fuori.
Torno a letto.
Che nottata!
L’indomani riesco a far uscire pure Mina. Sistemo meglio il recinto.
“Ok, adesso ci siamo ma un’altra notte così non me la voglio proprio accollare!”, penso tra me. Tuttavia, non ho altro posto dove andare.
Che pensata quella di dare le chiavi ai romani!
Nel pomeriggio decido di andare a trovare l’altro personaggio, quello che vive a cinque chilometri dal paese e a uno e mezzo circa, di mulattiera, dal campo.
Esco dal recinto e vedo che tori e mucche sono piuttosto nervosi.
È finita l’acqua nel fontanile.
Dovrebbe venire sù il bioedile a portarne un paio di damigiane ma anche lui non si vede.
È il 14 Agosto.
Arrivo sulla mulattiera e la strada è sbarrata dai tori e dalle mucche.
Sono molto nervosi.
Cerco di passare radente il muro ma un toro quasi mi carica.
“Porco Giuda!”, penso tra me, “meglio che non ci vada a trovare l’amico!”.
Torno verso il campo ma, di fianco al fontanile, nel punto dove la vegetazione si dirada sul sentiero che porta al recinto, quattro, cinque bovini mi sbarrano il passaggio.
“Ce l’hanno tutti con me. Ma è colpa mia se è finita l’acqua?
Decido di andarmene.
“Se questi si arrabbiano sul serio”, mi viene da pensare, “la storia finisce sul giornale!”.
Raggiungo il recinto passando per un francobollo di bosco ed evitando il sentiero.
Smonto in fretta la tenda. Fuori dal recinto ci sono i maiali che, nel frattempo, mi sono diventati antipatici. Riempio un secchio con le provviste che, bontà loro, mi hanno lasciato e glielo metto davanti al muso.
Loro iniziano a grufolare.
Io esco dal retro del recinto e, senza tornare sulla mulattiera, taglio per i boschi.
Mi avevano insegnato una scorciatoia per arrivare in paese.
“L’unico inconveniente di quel bosco”, mi dicevano, “è pieno di serpenti”.
“Meglio i serpenti che le cornate dei tori”, penso tra me. “Basta tenere gli occhi aperti!”
Arrivo in paese che è quasi sera. Mi accampo su un terreno del bioedile ai margini dell’abitato.
Almeno non ci sono animali!
Mi faccio un fuoco. Raggiungo il più vicino ristorante e prendo una pizza da portar via. La mangerò vicino alla legna crepitante.
Finalmente un po’ di relax.
L’indomani, Ferragosto, prenderò l’unica corriera per Tivoli dove, fortunatamente, abita una mia zia. Le darò l’onore di ospitarmi. Arriverò a casa sua con una fame da lupi e mi godrò oltre misura una bella doccia tiepida e le lenzuola fresche di bucato sul divano-letto del salotto.
L’idea di vivere in un ecovilaggio, al momento, decido di archiviarla.