Storia del fenomeno comunitario: la stagione dei kibbutzim

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Storia del fenomeno comunitario: la stagione dei kibbutzim

Come risulta chiaramente da quanto scritto nel post Comunitarismo ottocentesco tra eresia ed utopia, la fine dell’Ottocento ed i primi anni del Novecento vedono l’estinzione o l’irreversibile declino di diverse esperienze comunitarie americane (gli shakers, la Harmony Society, Zoar, Oneida). Nello stesso periodo, in Palestina, qualcosa di molto significativo sta vedendo la luce. Parliamo della stagione dei kibbutzim che avrebbe rappresentato, senz’altro, una delle pagine più significative del fenomeno comunitario internazionale. Sappiamo del resto che la Palestina ha anche avuto, nelle comunità essene, un importante precedente storico.
Negli anni ‘80 dell’800, grossomodo in contemporanea con la dissoluzione di Oneida negli Stati Uniti, emerge l’ideologia sionista (caratterizzata, tra le altre cose, da una decisa vocazione ruralista) che individua nell’esodo degli ebrei in Palestina un momento di riscatto da una loro condizione di apolide — talora profondamente sofferta ― precarietà. Tra il 1880 ed il 1890 circa 15000 ebrei, soprattutto dalla Russia del sud, si trasferiscono nella “terra promessa”, dando vita ad un fenomeno conosciuto come First Aliyah.
L’incalzare di pogroms, in Russia, nei primissimi anni del ‘900, alimenta ulteriormente l’esodo in atto. Verso gli Stati Uniti e, ancora una volta, verso l’ottomana Palestina.
Questa, tuttavia, era un territorio piuttosto ostile per diverse ragioni: arido, paludoso, pietroso quando non desertico, infestato, in molte aree, da malaria, tifo e colera. Gli ebrei immigrati non avevano, in principio, grandi competenze agricole mentre clan di beduini nomadi, esperti di razzie, finivano per rendere loro la vita quasi impossibile. In un contesto di questo genere, la nascente cultura del kibbutz (che significa letteralmente “incontrarsi”, “aggregarsi”) ha rappresentato, per gli ebrei, l’unica modalità di sopravvivenza.
Nel 1909 viene dato avvio alla prima esperienza di kibbutz (Kvutzat Degania), nell’area sud del mare di Galilea. Questa coinvolge undici giovani che, tuttavia, hanno modo di comprare la terra grazie al contributo della comunità ebraica internazionale, molti membri della quale si sono dati da fare per raccogliere i soldi necessari.
Nel 1914 il kibbutz ha quintuplicato il numero dei suoi membri ed ha iniziato ad ispirare esperimenti simili.
Nel procedere degli anni, l’esodo degli ebrei non si arresta, tutt’altro, partendo anche dall’Europa centrale ed orientale. Gli anni ‘20 vedono una fioritura dei kibbutzim che, sin dal momento della fondazione, tendono a coinvolgere un numero più cospicuo di persone di quante ne fossero a Degania, alla fine della prima decade del ‘900.
Nel 1922 circa 700 persone vivono in kibbutzim, in Palestina, ciascuno dei quali ha la propria scuola, le proprie fattorie ed allevamenti di animali.
I kibbutzniks (membri dei kibbutzim) diventano 4000 dopo soli 5 anni mentre alla vigilia della seconda guerra mondiale rappresentano il 5% della popolazione ebraica residente in Palestina.
A partire dagli anni ’20, il movimento dei kibbutzim inizia a differenziarsi per orientamento politico e religioso.
Nel 1927 nasce Kibbutz Artzi, “l’ala sinistra” del movimento, in cui ha modo di affermarsi, con particolare successo, il principio della parità tra i sessi.
L’anno successivo vede la luce Chever Hakvutzot, l’Associazione di Kvutzot, in cui viene stabilito che i kibbutzim debbono avere una popolazione sempre inferiore alle 200 unità, per la maggiore coesione, fiducia e capacità cooperativa dei membri.
La principale federazione di kibbutzim, tuttavia, sarà Kibbutz Hameuhad (Kibbutzim Uniti), che federerà il maggior numero di membri.
A partire dalla fine degli anni ’40 inizia a prendere corpo anche l’ala cosiddetta “religiosa”, che avrebbe dato vita al Movimento Religioso dei Kibbutzim. Alcuni kibbutzim di ispirazione religiosa vengono oggi identificati con il Chassidismo Hippy che ha in figure come il rabbino Shlomo Carlebach i principali referenti culturali.
Merita menzionare, per comprendere la versatilità del movimento dei kibbutzim, che questi avrebbero anche avuto un importante ruolo militare, soprattutto a partire dalla fine degli anni ’30, quando i rapporti con gli arabi si deteriorarono in maniera drammatica. In particolare, i kibbutzniks si distinguono come combattenti nella guerra arabo-israeliana del 1948.
Negli anni ’60 il benessere arriva nei kibbutzim; i kibbutzniks vedono il loro tenore di vita aumentare più velocemente di quello della popolazione di Israele in generale. Il trend si mantiene bene nel corso degli anni ’70, con buone ricadute occupazionali.
Sul calare degli anni ’70 e nel corso degli anni ’80 inizia un periodo critico, in sinergia con una ben più ampia e grave crisi economica.
I forti livelli di indebitamento inducono molti kibbutzim, fino a quel momento a decisa struttura collettivista (almeno nella maggior parte dei casi) a percorrere la strada della privatizzazione .
Oggi, il processo di privatizzazione ha coinvolto la stragrande maggioranza dei kibbutzim (che vengono qualificati come “rinnovati”, al contrario di quelli che hanno deciso di mantenere la vecchia struttura collettivista e vengono indicati come “modello cooperativo”); in alcuni casi sono stati privatizzati anche due servizi considerati, in genere, intoccabili: la sanità e la scuola.
A conclusione di paragrafo, merita riportare stralci di un intervista che ho fatto ad Ilay, un ragazzo israeliano di 25 anni, nato e cresciuto in un kibbutz collettivista (che ha poi seguito la via della privatizzazione) e con una nutrita esperienza in altri due kibbutzim:

«Sono nato in un kibbutz dove ho vissuto fino ai 5 anni di età. Rappresento la terza generazione perchè mio padre è anche nato in un kibbutz e mio nonno era venuto dalla Germania per costruirlo.
Si chiama Cabri. Era un kibbutz regolare ma, come la maggior parte degli altri kibbutzim, è stato privatizzato. Quando ci sono nato, i bambini vivevano tutti insieme, in una loro casetta con qualcuno che se ne prendeva cura. Era la vecchia idea comunitaria: una persona si prendeva cura dei bambini , una persona cucinava, un’altra lavava i piatti, a rotazione. Ricordo mi sentivo molto protetto, ogni cosa era gratis, si giocava con gli altri bambini e vivevamo tutti molto vicini. Oggi a Cabri vivono 150 famiglie, 400-500 persone. C’era una edificio comune con la sala da pranzo e vicino un club, per sedersi e bere un caffè insieme. C’era una segreteria che si preoccupava anche di smistare le macchine disponibili quando necessario, una galleria per gli artisti, un’infermeria e poi, tutto intorno, c’erano le case delle famiglie dei membri, la fattoria, i campi dove pascolavano gli animali. Coltivavamo banane, avocado, uva ed allevavamo mucche e polli. C’era anche una scuola interna per i primi 6 anni, poi si andava in una scuola esterna che aggregava i bambini di vari kibbutzim. Avevamo anche una piccola fabbrica per lavorare il ferro. Ora questo kibbutz è organizzato in maniera molto diversa. Il manager della fabbrica e della fattoria hanno, ad esempio, stipendi più alti dei normali lavoratori. Un tempo il salario era lo stesso, una paghetta uguale per tutti. Oggi molte persone lavorano fuori, è permesso e questo ha comportato un grande cambiamento. Mio padre ed un mio amico che ancora vivono lì sono contenti ci sia stata questa trasformazione; ritengono abbia portato più benessere materiale e più libertà. D’altro canto, abbiamo perso uno stile di vita molto speciale, molto intimo e semplice. I soldi hanno reso i membri più orgogliosi, superbi, hanno creato maggiore separazione. Ancora alcuni pasti sono consumati in comune, soprattutto il venerdì sera. È un momento molto importante. Ci sono poi le vacanze insieme, come in passato. Si consuma, in genere, solo un pasto in comune. Oggi la scuola continua ad esserci anche se è a pagamento, dunque si può scegliere se mandare i figli in questa scuola o in una scuola esterna ma, in genere, si opta per la scuola interna. Il posto è molto vicino al confine libanese ed alla città di Naharya. Dai 5 agli 8 anni sono stato in un altro kibbutz (Rosh Hanikra, 10 chilometri a nord di Cabri). Eravamo lì, con la mia famiglia, in qualità di “lavoratori” ed avevamo un salario, pur dovendo pagare per il cibo e l’affitto delle casa.
Negli ultimi tempi sono stato in un altro kibbutz ancora: Neot Smadar, nel sud del paese, a 40 minuti dal confine con l’Egitto. Neot significa oasi e Smadar è il nome della moglie del fondatore. Questo è una sorta di kibbutz new age, organizzato in maniera molto simile ai kibbutzim storici. Questo kibbutz ha trovato delle soluzioni originali mantenendo il modello comunistico originario. C’è la sala per mangiare, dove si mangia 3 volte al giorno insieme. I bambini mangiano in un’altra stanza perchè è abitudine mangiare in silenzio [su questo punto è possibile riscontrare una diretta continuità con le comunità essene]. C’è una lavagna dove sta scritto, per qualunque settore del kibbutz, quante persone servono: ad esempio, in cucina ne servono 4, nei campi 7 e ciascuno si segna per questo o per quello. Non esiste salario; siamo dunque nell’ambito della concezione classica. Non circola denaro, qualunque cosa serva ai membri viene segnalata all’economo che la compra fuori. L’economia del kibbutz è alimentata dalla vendita di quel che produce (olio, vino, frutta). Le persone non vivono fuori il kibbutz, non ci sono lavoratori esterni, salvo un caso. Chi si vuole allontanare lo può fare ma a sue spese.
Droghe ed alcool non sono ammessi mentre il cibo è integralmente biologico».

Oggi i kibbutzim si distribuiscono i 3 diversi movimenti:

1. Il Kibbutz Movement, in cui sono confluite le principali organizzazioni storiche. Coagula più dell’85% dei kibbutzim presenti in Israele;
2. Il Religious Kibbutz Movement Hapoel HaMizrachi, cui è stato precedentemente accennato;
3. Agudat Israel Workers.

 

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Per approfondire

 

Quindici anni di studi — in biblioteca e sul campo — sul vivere insieme.
Il quarto di una fortunata serie di testi sull’universo comunitario, ogni giorno più multiforme. Un excursus che, dalle prime comunità essene, giunge alle contemporanee esperienze di cohousing tentando di non trascurare nessuno: esponenti radicali della riforma protestante, socialisti utopisti, anarchici, hippies, kibbutzniks, ecologisti più o meno profondi, new-agers, cristiani eterodossi, musulmani pacifisti e altro ancora.
Una mappatura ragionata — su scala italiana, europea e mondiale — di gruppi di persone che abbiano deciso di condividere, in vario modo, princìpi, ambienti, beni di vario genere e denaro, di comunità sperimentali — spesso ecologiste — dove si sondino le suggestive sfide di uno spazio vitale comune.

 

Manuel Olivares, sociologo di formazione, vive e lavora tra Londra e l’Asia.
Esordisce nel mondo editoriale, nel 2002, con il saggio Vegetariani come, dove, perchè (Malatempora Ed). Negli anni successivi pubblicherà: Comuni, comunità ed ecovillaggi in Italia (2003) e Comuni, comunità, ecovillaggi in Italia, in Europa, nel mondo (2007).
Nel 2010 fonda l’editrice Viverealtrimenti, per esordire con Un giardino dell’Eden, il suo primo testo di fiction e Comuni, comunità, ecovillaggi.
Seguiranno altre pubblicazioni, in italiano e in inglese, l’ultima e di successo è: Gesù in India?, sui possibili anni indiani di Gesù.

 

Leggine l’introduzione

 

Prezzo di copertina: 16.5 euro

 

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