Un’analisi sociologica della paura della cultura e religione islamica; seconda parte

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Un’analisi sociologica della paura della cultura e religione islamica; seconda parte

Dagli attentati terroristici avvenuti in questi anni, soprattutto dall’11 settembre 2001 fino agli anni recenti, si è venuta a creare una paura dell’Islam.
Ma cos’è l’Islam? Come mai i mass media parlano di attentati terroristici di matrice islamica? Nel campo dell’educazione, noi educatori, quali strumenti di formazione e di convivenza civica possiamo adoperare?
Con queste domande si è svolta una ricerca dal titolo: 
 من ترس ندارم Un’analisi sociologica della paura della cultura e religione islamica di cui condividiamo alcuni stralci con i lettori di Viverealtrimenti. Attraverso questa si è cercato di dimostrare quali sono le basi sociologiche, antropologiche che diffondono la paura nei confronti dei fedeli musulmani, caratterizzata da sentimenti di odio e razzismo trasmessi dai mass media e capire quali strumenti poter utilizzare affinché si possa parlare di dialogo interculturale e interreligioso.

Con questo second post, ancora di carattere introduttivo, entriamo nello specifico delle diverse espressioni geografiche dell’Islam: in Asia, Africa ed Occidente.

Clicca qui per leggere il primo post.

Carina Gregorilaureata in Educatore Professionale di Comunità presso l’Università degli Studi di Roma Tre. Sta frequentando il Master in Educazione Interculturale promosso dal CREIFOS (Centro di Ricerca sull’Educazione Interculturale e la Formazione e allo Sviluppo).

 

 

L’Islam nel Maghreb

 

L’interesse per il Maghreb per noi europei è indubbio. Paesi come la Tunisia, il Marocco, l’Algeria– i principali Stati che entrano a fare parte convenzionalmente, assieme alla Libia, del Maghreb (in arabo: dove tramonta il sole, l’occidente in senso geografico)- sono divenuti dall’inizio degli anni Sessanta per molte società europee i punti di partenza dei flussi di emigranti. Le popolazioni originarie del Maghreb sono berbere. Solo alla fine del VII secolo è iniziato un processo d’islamizzazione e d’arabizzazione sotto la dinastia degli Omayyadi. Mentre il primo non ha incontrato ostacoli molto forti, il secondo è stato contrastato a lungo, se è vero che l’imposizione della lingua e della cultura beduina araba si è protratta ben oltre il tempo richiesto per convertire i berberi all’Islam: se la conversione si è compiuta nel giro di un centinaio di anni, l’arabizzazione è durata molto di più. Occorre arrivare al XV secolo per poter parlare di una acculturazione quasi integrale all’arabo dei popoli autoctoni. Diciamo parziale, perché ancora oggi esistono delle estese aree nel Maghreb dove vivono popolazioni berbere che difendono la loro identità dall’egemonia politica e linguistica delle élite arabe. È il caso, ad esempio, della regione della Kabilia nell’Algeria. Le difficoltà incontrate dai conquistatori arabi che dal primo avamposto di Kairouan (oggi in Tunisia) si spinsero verso il Marocco e più tardi, attraverso lo stretto di Gibilterra, sino all’Andalusia, nell’imporre religione e lingua alle popolazioni locali, rendono conto di un dato socio-religioso tipico della realtà pur variegata del Maghreb: la sopravvivenza di culti e credenze propri dei berberi all’interno del sistema di credenza islamica che alla lunga diventa egemone, culti e credenze che erano stati influenzati, da un lato, dalle religioni africane “di lunga durata” con la centralità della ricerca di un contatto personale e personalizzato con il sacro attraverso i riti di possessione e, dall’altro, dal cristianesimo che in Nord Africa aveva conosciuto una diffusione notevole.
Le popolazioni berbere che facevano resistenza al dominio della dinastia omayyade si piegavano alle nuove idee religiose, ma finivano per dare ascolto piuttosto ai dissidenti che, perseguitati dagli omayyadi, si rifugiavano in aree relativamente periferiche. Fu così che queste popolazioni prestarono ascolto all’Islam, ma spesso attraverso la versione dei kharigiti. L’influenza del Kharigismo si farà sentire nella lunga durata. Dal punto di vista socio-religioso, tale corrente minoritaria dell’Islam eterodosso influenzerà il Maghreb in modo decisivo. Essa, infatti, predica un rigorismo etico e religioso che ha finito per rendere l’ambiente recettivo alla penetrazione di una scuola giuridica come quella malikita, che avvenne attorno al XIII secolo. Da un lato si è venuto affermando un ceto di specialisti del sacro (‘ulama e fuqaha), gelosi custodi della lettera della Legge e garanti scrupolosi dell’osservanza rituale stabilita dalla Legge stessa, organici al potere politico di volta in volta costruito; dall’altro, per contrasto, gli strati sincretisticamente inglobati nel sistema di credenza sono diventati i veicoli di una spiritualità e di una religiosità personali, diffuse sino ad oggi soprattutto fra i ceti popolari. Per cui a fronte di un Islam istituzionalizzato, poco flessibile ad accogliere le innovazioni, si è venuto diffondendo il culto dei santi che si è combinato con la parallela diffusione delle confraternite di ispirazione sufi. Lentamente e dal basso la religiosità legata al culto dei santi (marabutti) ha finito per svilupparsi come un Islam parallelo, non marginale, ma centrale per intendere la specificità socio-religiosa del Maghreb. I santi-marabutti che dal profondo Marocco sino alle oasi di montagna della Tunisia sono stati e continuano ad essere oggetto di venerazione hanno svolto e svolgono una duplice funzione: religiosa in senso stretto, come polo d’aggregazione spontanea per vivere un’esperienza religiosa per praticare un Islam “del cuore” che altrimenti non sarebbe possibile in un ambiente così marcato dalla scuola malikita e, latamente sociale, in quanto luoghi di solidarietà che superano i legami di clan e le differenze di tipo economico o territoriale. Fino agli inizi del XX secolo la convivenza fra questi due Islam non ha mai posto veri problemi. Le cose sono cominciate a mutare quando, dapprima le correnti riformiste e poi i movimenti radicali hanno ripetitivamente condannato il culto dei santi come deviazione dall’Islam puro e rigoroso.

 

 

L’Islam dell’Africa nera

 

Una delle zone del mondo dove l’Islam ha conosciuto e continua a conoscere una diffusione estesa è l’Africa subsahariana. La religione di Muhammad vi è arrivata attraverso le grandi vie carovaniere e commerciali, percorse dai mercanti arabi che trafficavano in oro così come più tardi in schiavi, in avorio e con il pregiato legno per costruire navi. Attorno ai nodi portuali, da un lato, e ai grandi mercati che si svolgevano tradizionalmente a Gao e a Timbuctu, nel cuore dell’Africa nera o, più spostati verso l’Oceano Indiano, a Mombasa, Mogadiscio, Zanzibar e Kilwa dall’altro, l’Islam conquista in primo luogo le città africane, a riprova del resto della sua originaria forza propulsiva. Fenomeno spiccatamente urbano, l’Islam si è altresì sposato con le prime forme di corporazioni economiche, vere e proprie continuazioni dello spirito di clan o tribale trapiantato nei luoghi deputati agli scambi commerciali. La prima area ad entrare in contatto con il mondo dell’Islam è stata la zona del Corno d’Africa, per i noti contatti della prima comunità islamica con l’Abissinia. Sono tre le caratteristiche dell’Afro-Islam. La prima è la ancor più marcata presenza del modello della confraternita come reale veicolo della fede musulmana. La seconda caratteristica l’abbiamo in parte già vista quando abbiamo parlato del risveglio islamico. In generale nell’Africa subsahariana si sono manifestati movimenti collettivi che hanno interpretato il precetto coranico del jihad come luogo teologico della rivelazione del Salvatore atteso, sviluppando una escatologia certamente non in linea con la tradizione sunnita che in modo maggioritario ispira l’Islam africano nero. Il terzo elemento che caratterizza la presenza dell’Islam nell’Africa sub sahariana è lo stretto legame fra la colonizzazione e il nuovo impulso che la religione di Muhammad conosce: l’Islam apparirà a molti popoli oppressi dalle potenze europee una religione meno distante dalle loro tradizioni locali, e soprattutto non associata alle religioni dei “bianchi”, come il cristianesimo, religione quest’ultima che dovrà sempre più contendere il terreno che l’Islam gli va sottraendo.

 

 

L’Islam asiatico

 

Anche nel caso dell’Asia – e in particolare dell’Asia centrale e dell’Estremo Oriente – è importante soffermarsi a parlare dell’Islam perché l’Indonesia è la più grande nazione di fede musulmana, almeno nominalmente. L’Islam comincia la sua penetrazione nel lontano XIII secolo. I veicoli che ne facilitano la diffusione sono, come nel caso dell’Africa nera, due: i mercanti da un lato e le confraternite sufi dall’altro. I contatti commerciali aprono le porte alle merci e agli scambi di beni fra la penisola indonesiana e i mercanti provenienti dal subcontinente indiano, e attraverso questi contatti si impiantano le confraternite, la cui principale attività pubblica all’inizio è l’apertura di scuole coraniche che permettono ai fondatori delle turuq (confraternite) indonesiane di creare luoghi di socializzazione di base di intere generazioni. L’apertura delle scuole nei centri urbani così come nei villaggi conferisce ai capi delle confraternite uno status particolare: essi, oltre a farsi riconoscere come leader carismatici, acquisiscono un’autorità locale, influenzando la vita collettiva soprattutto a livello di piccoli e medi villaggi, divenendo in sostanza delle autorità latamente politiche. La diffusione dell’Islam in modo così capillare è dipesa anche dal fatto che, contrariamente agli spagnoli che cercarono di contrastare l’Islam, memori della cacciata dei mori da Granada nel 1492, gli Olandesi, che per secoli tennero sotto il loro controllo la penisola indonesiana, si mostrarono invece molto permissivi nei confronti della nuova religione, che non mostrava di voler aizzare moti popolari contro il dominio coloniale. L’Islam indonesiano man mano che andava radicandosi nella società veniva differenziandosi in due tipi di credenti. Il primo tipo – i santri – ha identificato nel passato, e continua ad identificare ancor oggi, il musulmano puro di cuore e pio nell’osservanza dei riti e della Legge coranica; il secondo tipo – gli abaagan – invece allude ai musulmani nominali, nati come tali, ma non credenti. Questa tipologia storicamente presente nella società indonesiana sta alla base di una distinzione più moderna fra riformisti e tradizionalisti, fra coloro che pensano sia necessario rivitalizzare l’Islam dal basso e ridefinire le basi stesse della costituzione dello Stato moderno (i riformisti) e coloro che ritengono più opportuno conservare il principio che funziona da norma generale del nuovo Stato indonesiano, così com’è stato enunciato all’indomani dell’indipendenza, avvenuta nel 1945: il cosiddetto panca-sila. Queste due parole significano che nella costituzione del nuovo Stato la linea che prevale non è quella che avrebbe voluto fondare sulla Legge coranica gli ordinamenti statali, ma la linea opposta: dare vita a uno Stato che riconosce apertamente nel suo ordinamento la fede in Dio, senza identificare questo Dio con quello dei musulmani o dei cristiani o di altre religioni. I cinque pilastri ( panca-sila) della nuova costituzione dunque disegneranno uno Stato non confessionale in una società a maggioranza musulmana, con la finalità di favorire la cooperazione fra le diverse comunità etniche e religiose e di promuovere più facilmente il processo di identità nazionale. Identità nazionale e fede in Dio sono i due fondamenti principali; ad essi si aggiungono il rispetto dei diritti umani, la difesa del sistema democratico e la tutela dei diritti sociali da parte dello Stato. L’Islam indonesiano produce non uno Stato islamico, bensì un modello, almeno inizialmente, di tipo democratico, volto a promuovere l’interazione pacifica fra culture e fedi diverse. Il modello indonesiano, dunque, è interessante proprio perché l’Islam sembra poter convivere felicemente sia con uno Stato “laico” che con l’organizzazione pluralistica della comunità dei credenti.

 

 

L’Islam balcanico

 

La dissoluzione della Iugoslavia ha portato a nuova luce la presenza delle comunità musulmane nella regione sud-est dell’Europa. Formatesi all’epoca della dominazione ottomana, queste comunità hanno conosciuto una lunga e tormentata storia di repressioni e di marginalità. Durante le recenti guerre balcaniche, alcune di essere hanno cercato di proporsi come protagoniste per rivendicare autonomia politica e protezione internazionale: stiamo parlando della Bosnia-Herzegovina e del Kosovo. Il riemergere delle identità etno-religiose di matrice musulmana nell’area balcanica costituisce un fatto importante per tutta l’Europa: assieme ai 15 milioni di musulmani oggi residenti nell’Europa occidentale bisogna aggiungere i 9 milioni che abitano nelle diverse aree di cui si compongono i Balcani, di cui almeno 3-4 milioni nella ex Iugoslavia. I musulmani del Sud-est europeo si compongono storicamente di tre gruppi ben distinti:
a) Le popolazioni che sono state islamizzate durante il dominio ottomano in Bulgaria, Grecia, Macedonia, Albania, Kosovo e Bosnia Herzegovina;
b) Le popolazioni di origine turca che si sono insediate nelle regioni balcaniche a seguito degli eserciti di conquista ottomani (come quelle che oggi risiedono nei villaggi della Tracia, della Macedonia e del Kosovo);
c) Le popolazioni che sono state forzatamente spostate dai sultani turchi per ragioni politiche ed economiche in determinati momenti storici e che poi hanno finito per radicarsi nelle nuove terre d’arrivo.
Le caratteristiche dell’Islam balcanico perciò riflettono in larga misura i tratti propri dell’Islam turco-ottomano. La popolazione di origine turca, appartenente alla tribù dei Selgiucchi, proveniente dalla regione della Transoxiana, si convertirà all’Islam sotto gli Abbasidi, nel momento in cui questo impero cominciava a denunciare crisi interne e sfaldamenti territoriali, e si insedierà stabilmente nel 1038 nel Khurasan, per poi muovere verso l’attuale Anatolia. L’innesto fra Islam e modelli socio-politici propri delle popolazioni turche dà vita ad una dualità di poteri sconosciuta all’Islam classico. Il capo delle tribù selgiuchide, infatti, si faceva chiamare sultan. Quando successivamente l’Impero ottomano si stabilizza, il retaggio dei Selgiucchi si farà sentire. Il governo politico imperiale, infatti, verrà articolato in due funzioni distinte: quella del sultano, chiamato a gestire direttamente il potere politico e quella del califfo, cui viene affidata la rappresentanza della comunità religiosa, la umma. Il secondo tratto tipico dell’Islam ottomano è la gran cura riservata dai sultani alla creazione di un efficiente apparato amministrativo e militare. Grazie ad un forte apparato decentrato di tipo burocratico-militare, i sultani ottomani riuscivano a islamizzare le popolazioni locali usando il metodo del bastone e della carota: i nuovi apparati offrivano a molte famiglie la possibilità di mobilità sociale e di ottenere vantaggi economici. Le popolazioni locali si acconciavano perciò alle nuove regole dettate dal dominatore, accettando anche di convertirsi alla nuova religione (l’Islam), ben sapendo che per il dominatore era più importante l’obbedienza e il servizio reso allo Stato che non un’adesione convinta e profonda ai precetti religiosi. L’obbedienza assoluta al comando politico era compensata in parte da forme di compromesso socio-religioso fra la nuova religione dominante e le fedi preesistenti. Così è avvenuto fra le grandi famiglie del Kosovo e della Bosnia: era prassi consolidata, infatti, che almeno un figlio della famiglia fosse musulmano, mentre gli altri membri potevano anche non esserlo. Allo stesso modo, fra gli strati popolari la diffusione dell’Islam avviene soprattutto per mezzo delle confraternite. Se nel primo caso le famiglie altolocate si garantivano la sopravvivenza e il potere locale, nel secondo i ceti sociali meno favoriti riuscivano a conservare in parte la loro identità socio-religiosa, celandola dietro le forme di devozione proprie della tradizione sufi, tollerata dall’Islam ufficiale. Nell’area balcanica ci sono state altre confraternite che hanno conosciuto una certa fortuna in Albania, Kosovo, Macedonia e Bosnia, come la Khalvetiyya, la Mawlaniyya e la Naqshbandiyya. In conclusione possiamo dire che nei Balcani il fattore religioso ha giocato un ruolo secondario rispetto, invece, al senso di appartenenza socio-culturale e socio-linguistico che ha accomunato nel tempo le popolazioni balcaniche. L’identità si è costruita più sulla continuità dei costumi e della lingua e meno sulla base di valori comuni tratti dalla religione. Non fosse altro perché l’Islam è apparso come la religione imposta dai conquistatori e non un elemento costitutivo della storia e della memoria collettiva di interi popoli. In alcuni casi, l’antagonismo contro l’invasore turco-musulmano è rappresentato dalle figure di eroi nazionali, come nel caso dell’albanese Skandenberg, che resiste fino al 1478 nel suo piccolo regno d’Albania all’avanzata dell’esercito della Sublime Porta. Inoltre, non può essere taciuto il fatto che anche in quelle aree balcaniche, dove l’Impero ottomano si installa e si sforza di islamizzare con maggiore forza la società, le autorità religiose di Istanbul finiscono per tollerare che i testi sacri siano letti, studiati e commentati non più in arabo (la lingua sacra del Corano), ma nella lingua nazionale, in caratteri cirillici o latini, consentendo a forme inevitabili d’ibridazione socio-linguistica. Quando nasce il Regno iugoslavo nel 1918, subito dopo la prima guerra mondiale, le due componenti maggiori che daranno vita alla nuova formazione politica unitaria saranno i croati e i serbi. La componente musulmana sarà emarginata, perché si parlerà al massimo di serbo-musulmani e di croato-musulmani. Un’identità autonoma dei popoli musulmani verrà negata in nome del principio costitutivo del Regno iugoslavo secondo cui “noi siamo tutti fratelli, la religione non ha alcuna importanza”. Tanto per dire che la presenza dell’Islam nei Balcani sia stata vista come un retaggio della dominazione ottomana e, soprattutto, con una valutazione peggiorativa che molto male ha fatto alla storia recente delle popolazioni slave dell’area (con le ultime guerre balcaniche), come un prodotto culturale e storico di dubbia autenticità. L’identità musulmana dei popoli così negativamente stigmatizzati ha potuto esprimersi per contrapposizione e riemergere, dopo lo sfaldamento della Confederazione iugoslava inventata da Tito dopo la seconda guerra mondiale e travolta dalla caduta del Muro di Berlino, attraverso la dura e spaventosa serie di guerre in Bosnia prima, e in Kosovo, dopo.

 

 

L’Euro-Islam

 

I rapidi cenni fatti ai diversi Islam ci hanno insegnato che questa religione sembra poter mettere gli individui e gli attori sociali in condizione di sapersi integrare, senza perdere la propria identità socio-religiosa. Sarà così per l’Europa, ormai divenuta la nuova frontiera dell’Islam. In Europa sono presenti ormai quasi quindici milioni di musulmani che sono arrivati per la maggior parte a seguito dei flussi migratori che il nostro Vecchio Continente conosce ormai da più di trent’anni. Una presenza plurale: dall’Asia e dall’Africa, dalle isole caraibiche ai Balcani. L’effetto inatteso di questo spostamento ingente di popolazione è la costituzione in diversi paesi europei di estese comunità più o meno strutturate, una grande diaspora musulmana che va sperimentando una propria via all’integrazione sociale fra riscoperta della propria identità socio-religiosa, rottura con la tradizione, mediazioni culturali possibili. In molti paesi europei nel passaggio dalla prima generazione di immigrati alla seconda e oggi alla terza generazione si producono cambiamenti significativi proprio rispetto all’identità socio-religiosa dei musulmani. Nel primo caso emerge un nuovo tipo di religiosità, più spirituale e più privatizzato che appare perciò più vicino alla sensibilità moderna degli europei nei confronti della religione; nel secondo caso la comunità musulmana si organizza e mette in discussione l’assetto degli ordinamenti giuridici e politici dello Stato laico moderno. Le questioni legate a ruolo della donna, al regolamento shiaritico del matrimonio, dell’eredità, dell’educazione dei figli e così via, oggettivamente distanti dalla cultura giuridica dei nostri paesi, costituiscono e costituiranno delle frontiere sensibili fra i due “mondi” (quello musulmano e quello europeo). Non c’è solo la questione del velo, dunque. Il velo diventa oggetto di contesa simbolica all’interno stesso del mondo musulmano: fra le prime generazioni esso diventa simbolo di riaffermazione in pubblico della propria identità culturale e religiosa non negoziabile perché ritenuta coerente con i doveri di ogni buona musulmana, mentre fra le seconde esso è interpretato più come una libera scelta che ogni credente compie, che come una adesione passiva, ad un presunto dovere religioso inscritto nel grande codice coranico. La maggioranza dei musulmani in Europa si attesta su una posizione che possiamo chiamare di riconoscimento dei loro diritti religiosi nella sfera pubblica. Come scrive Saint-Blancat:

«L’islam maggioritario si è ufficialmente strutturato attorno alle moschee e alle associazioni religiose che ricoprono quattro funzioni fondamentali: 1) creazione e istituzionalizzazione progressiva dei luoghi di culto […]; 2) fornire un contesto di ristrutturazione sociale e culturale di fronte all’isolamento e all’emarginazione; 3) costruire uno spazio simbolico nella società di accoglienza, in grado di costruire un’immagine positiva dell’islam, poi di diffonderla e di negoziare con le istanze politiche sulle transazioni sociali necessarie; 4) mantenere l’educazione religiosa e l’identità culturale e linguistica, e soprattutto trasmettere ai giovani un sistema di valori e di norme di comportamento, in breve un sistema di controllo sociale quanto religioso. Solo dopo aver consolidato questi “pilastri” sociali le comunità islamiche negoziano con lo Stato il riconoscimento della loro specificità socio-religiosa. L’Euro-Islam si presenta plurale e soprattutto come una nuova frontiera per lo stesso Islam: non solo nel senso tradizionale, ma anche nel senso che la cultura europea porrà inevitabilmente delle sfide all’Islam. Se l’Europa sarà sempre più impegnata a ridefinire i confini della laicità dello Stato per dare spazio e riconoscimento all’Islam, a sua volta questo sarà spinto a riconsiderare la necessità di una riforma religiosa “dall’interno” che molti intellettuali, per ora isolati dal mondo musulmano, caldeggiano. La lente deformata, anche se necessaria in una prima fase di ricognizione sociologica, che fin qui è stata usata per studiare la presenza dei musulmani in Europa è stata la prospettiva degli studi migratori. Se era comprensibile che, nella prima ondata migratoria, si finisse per comprimere gli elementi socio-culturali e socio-religiosi e per identificare l’Islam con gli immigrati di origine musulmana, tale prospettiva non è più utile perché in molti casi, anche in quello italiano, siamo già alle seconde generazioni, e in altri alle terze. Dunque, siamo in presenza di cittadini europei, formalmente con diritti e doveri uguali agli autoctoni, che professano la fede islamica, in forme differenziate come accade in tante altre religioni che noi conosciamo. È il connubio fra una fede antica e un ambiente sociale nuovo a generare un modello europeo di essere musulmani e musulmane; un Islam senza una cornice istituzionale e un complesso di norme che si richiamino in qualche misura alla Legge Coranica. Le conseguenze sono già sotto gli occhi degli studiosi più attenti, non solo di europei di antica data ma anche di una generazione di ricercatori che è emersa proprio dalle prime coorti di immigrati o che ha cercato fortuna in Europa.

Possiamo riassumere le conseguenze socio-religiose del processo di adattamento e di reinvenzione dell’Islam in Europa in quattro formule:

a) Credere anche fra i cittadini europei di fede musulmana diventerà prevalentemente oggetto di scelta personale: l’Islam consente maggiori gradi di libertà, proprio perché non ha un’autorità istituzionale riconosciuta;
b) Credere potrà significare identificarsi con un gruppo che è in grado di restituire senso collettivo all’agire individuale;
c) Credere potrà trasformare la fede in un’ideologia politica, antagonista alla cultura dei consumi e agli stili di vita occidentali;
d) Credere, infine, potrà significare impadronirsi del linguaggio religioso dei testi sacri e della tradizione per smontarli criticamente, per selezionare ciò che appare vivo da ciò invece morto nel grande corpus dei simboli e delle norme contenute nell’Islam.

È solo la fissità degli stereotipi in base ai quali classifichiamo in modo semplice e riduttivo la varietà delle donne e degli uomini che magari vantano una radice etnica diversa dalla nostra, ma che pensano, lavorano e agiscono concretamente, in situazioni determinate dalle condizioni di vita, dal posto di lavoro, dall’abitazione che si ha, dalla rete di amici che ci si crea. Lo stereotipo secondo cui provenire da una famiglia di maghrebini, pakistani o senegalesi significhi automaticamente essere buoni credenti musulmani o, peggio, pericolosi e fanatici individui, diventa una lente deformante. Se decideranno di credere, saranno, tutt’al più, musulmani italiani».

 

 

L’Islam negli Stati Uniti

 

Dopo l’11 settembre 2001, la maggioranza degli statunitensi – i bianchi protestanti, ma non solo – si è accorta di doversi confrontare con una minoranza di cittadini americani di fede musulmana. C’è una lunga tradizione di movimenti, soprattutto fra la popolazione nera, che hanno scelto di aderire all’Islam, visto come religione antagonista a quella dei bianchi, che sono stati colonizzatori, prima, quando sono entrati nelle capanne dei fratelli d’Africa per ridurli in schiavitù, e razzisti a casa loro, dopo, per decenni, sino alle soglie dell’epoca moderna. C’è stato e c’è ancora, un movimento che ha preso il nome di Nation of Islam, che è arrivato a rivendicare uno Stato autonomo dove i musulmani neri d’America possano andare a vivere e modellare sul calco della Legge Coranica ordinamenti civili e politici. A questo fenomeno endogeno si è aggiunto negli ultimi decenni un imponente flusso di immigrati provenienti dai quattro angolo del mondo musulmano. Ben il 78% dei musulmani presenti oggi negli Stati Uniti, infatti, è arrivato attraverso la catena migratoria. Nel 2001 uno studio attendibile, condotto dalla BBC News, calcolava in sei milioni circa il numero totale di musulmani negli Stati Uniti, con 1.200 moschee sparse su tutto il territorio, con un picco di concentrazione nella multi religiosa e multiculturale California, costruite nell’87% dei casi dal 1970 in poi. Le tensioni culturali fra una parte della popolazione di fede musulmana e il resto della società non sono molte né gravi.

 

 

Scissione tra Sciiti e Sunniti

 

Il conflitto che si verifica fra il “partito” di ‘Ali e il blocco sociale e politico che si coagula attorno a Mu’awya, governatore di Siria e cugino del califfo ucciso, si sviluppa nel breve arco di una ventina di anni. Esso vede il trionfo di Mu’awya nel 660 (un anno dopo ‘Ali verrà assassinato per mano di un suo ex militante che si sentì tradito a causa della decisione del suo capo di scendere a compromessi con Mu’awya), ribadito vent’anni dopo dalla definitiva sconfitta delle truppe fedeli agli ideali della shi’a, guidate dal figlio di ‘Ali, Husayn, nella battaglia di Karbala. Al di là delle vicende storiche, è importante definire i termini e gli esiti del conflitto sia sul piano sociale che su quello simbolico-religioso. Se noi guardiamo con attenzione alle caratteristiche del movimento collettivo che si forma al seguito del leader carismatico ‘Ali, individuiamo abbastanza facilmente quale sia stata la posta in gioco e le condizioni sociologiche della partita drammatica giocata fra le due fazioni in lotta fra loro: quella che risulterà maggioritaria e che prenderà il nome di sunnita e quella minoritaria sciita.
‘Ali viene a configurarsi in tutto e per tutto come un nuovo leader carismatico-religioso e politico come lo era stato del resto suo cugino Muhammad. Come accade spesso nella storia dell’Islam il conflitto intreccia aspetti religiosi e aspetti politici. Se, per quanto riguarda questi ultimi, in ballo è la questione del fondamento di legittimità del potere di guida della comunità, per i primi si tratta del rifiuto da parte di un consistente movimento di opposizione al tentativo compiuto dal califfato di ‘Uthman di porre dei confini simbolici al sistema di credenza, varando la redazione del canone ufficiale del Corano. Quando nel 671 il nuovo califfo vittorioso Mu’awya dà l’ordine di sterminare tutti i capi del Qurrà (i lettori del Corano) che difendevano la memoria di ‘Ali, questo gesto non era solo dettato da comprensibili ragioni di polizia interna, ma anche dalla necessità di ribadire che esisteva ormai un testo codificato del Corano e che nessuna forma di libera interpretazione di esso era possibile. Da qui derivano profonde conseguenze circa la diversa concezione socio-religiosa che nel tempo marcherà le differenze fra sunniti e sciiti. Nel sunnismo si vengono ad affermare quattro scuole giuridico-religiose differenti, le quali si differenziano fra loro non solo per gli strumenti ermeneutici che adotteranno nell’interpretazione della Legge Coranica, ma anche e conseguentemente per il diverso tipo di ritualità che l’una o l’altra deciderà di assumere.
Questi ultimi si vedono nel giro di poco tempo privi dei loro capi (primo ‘Ali e poi suo figlio Husayn) e costretti a fuggire e a disperdersi per evitare la repressione del regime che di lì a poco si instaura, quello degli Omayyadi (661-750). La teologia che essi svilupperanno perciò tenderà a esaltare due concetti fondamentali: da un lato il martirio dei loro capi, morti per difendere la vera fede e la memoria autentica del Profeta Muhammad, e dall’altro il ruolo spirituale dell’imam, del capo stesso della comunità. Mentre, infatti, nel sunnismo si consolida il principio del carisma, di funzione che istituzionalmente e provvisoriamente spetta al califfo, nello sciismo, l’imam viene concepito sempre più, dopo la disfatta militare subita, come guida religiosa e spirituale, perché riconosciuto legittimo successore di ‘Ali e custode della verità ultima contenuta nella Rivelazione. Nel sunnismo l’imam è invece semplicemente colui che guida la preghiera che sta “davanti” per dare i tempi e i modi della preghiera collettiva. C’è un secondo importante elemento che emergerà più avanti nel tempo, ma è per così dire implicito nel sacrificio cruento di ‘Ali e di suo figlio, ed è la dottrina dell’imam nascosto. Secondo la setta sciita, setta perché vivrà emarginata e in clandestinità per lungo tempo, dopo i due primi imam (‘Ali e Husayn) si sono succeduti altri imam -sempre attraverso il meccanismo ereditario del carisma – sino a quando uno di essi è “scomparso”, entrando in una fase di occultamento dalla quale alla fine uscirà per tornare come Salvatore-Giudice dell’umanità tutta. Si può affermare che gli sciiti elaborano in realtà una sociologia che si articola sulla coppia concettuale nascosto-manifesto. La mappa cognitiva che essi disegnano ha certamente una motivazione religiosa, ma è sostanzialmente coerente con l’idea che nell’organizzazione della vita sociale in attesa dell’imam, che un giorno fatidico tornerà alla luce, esistano due livelli funzionali: il primo, il “nascosto”, legittima l’esistenza di un ceto di specialisti capaci di interpretare i segni dei tempi escatologici: sono gli ayatollah, possessori di un sapere religioso che non tutti hanno e che non possono accontentarsi del secondo livello, il “manifesto-visibile”, della realtà, riservato alla massa dei semplici fedeli. La gerarchia fra chi può conoscere il primo livello e chi si limita a stare al secondo livello fonda altresì una gerarchia sociale e politica all’interno della comunità sciita. Tutto ciò comporta delle conseguenze non irrilevanti non solo sul piano dottrinario, ma di nuovo anche su quello sociale e politico:
a) Pur riconoscendo che Muhammad è il Profeta per eccellenza gli sciiti finiscono per credere che il ciclo della profezia non si sia definitivamente concluso con la morte del Profeta, nel senso che il contenuto nascosto della rivelazione deve essere costantemente esplorato e disvelato da chi evidentemente è portatore di un dono speciale, quello di essere riconosciuto dalla comunità come imam.
b) Pur riconoscendo che la Parola rivelata sia contenuta nel Testo sacro per eccellenza, il Corano, il senso nascosto della verità contenuta nel Corano stesso è oggetto di un continuo lavoro di interpretazione – non alla portata di tutti come abbiamo più volte ribadito – che non si limita solo a commentare ciò che c’è scritto nel Testo, ma aggiunge senso, accumula nuove letture possibili del senso manifesto. La dottrina sciita che distingue lo batin (il nascosto, l’esoterico) dallo zahir (il manifesto, l’essoterico) assegna appunto un grande potere religioso a chi è portatore del carisma dell’inanimato, “viso umano” rivelato da Dio agli esseri umani. Gli sciiti maggioritari credono in 12 imam (c’è come sottolinea Corbin, un’analogia con le 12 tribù del popolo d’Israele e i 12 apostoli di Cristo), l’ultimo dei quali, Muhammad al-Mahdi, entra nell’occultamento nell’878, mentre i minoritari credono in sette imam. Questi ultimi sono i cosiddetti “settimani” o anche ismailiti, così chiamati perché credono che il settimo imam, Ismail, sia scomparso. La carica di imam per quanto fin qui detto non è elettiva, ma deve essere trasmessa per discendenza maschile; egli è per eccellenza “amico di Dio”, dunque infallibile nei suoi pronunciamenti e solo interprete autentico della Legge coranica. Le conseguenze che possiamo ricavare per ora sul piano sociale e politico di questa diversa concezione teologica espressa dalle sue due fazioni dell’Islam sono presto dette e nell’ordine sono:
a) Il modo differente di considerare la legittimazione politica del capo della comunità;
b) Il modo differente di considerare i rapporti sociali fra la guida e “il popolo” dei credenti;
c) Il modo differente di costruzione del principio di autorità della linea di credenza;
d) Il modo differente di considerare la Legge coranica.
Vediamo analiticamente questi quattro punti discriminanti. Per quanto riguarda il primo, mentre i sunniti tendono a legittimare il potere del califfo in base al criterio della selezione della persona ritenuta più autorevole tra la cerchia delle persone che sono state prossime e fedeli alla vicenda profetica di Muhammad, gli sciiti pensano che la guida spirituale non possa essere né selezionata né eletta dal momento che egli è il “volto” di Dio in terra, manifestazione di un dono speciale conferito da Dio a un essere umano, riconosciuto come “amico di Dio”. Per il secondo punto, mentre nel mondo sunnita fra il califfo e la comunità viene stipulato un patto di fedeltà nei confronti della Legge di Dio e fra il primo e la comunità stessa, la quale accetta di obbedire alle disposizioni del califfo, nelle comunità sciite si fa strada l’idea che la gerarchia spirituale che assegna agli specialisti in cose sacre un ruolo eminentemente importante nel cogliere il senso nascosto della rivelazione debba valere anche sul piano socio-religioso, nel senso che il credente comune ha una posizione subordinata rispetto a quella occupata da un membro del ceto degli specialisti. Venendo al terzo punto, la linea di credenza per i sunniti viene costruita subordinando la religione alla politica, convertendo i precetti religiosi in principi costituzionali di un ordinamento etico-giuridico architrave del nuovo ordine politico nato dall’Islam, mentre nel caso degli sciiti l’autorità della linea di credenza si costruisce sull’idea del martirio e dell’occultamento della guida della comunità: una linea di credenza fondata su una dimensione esoterica, tipica di una setta che ha ricevuto una drammatica sconfitta sul piano politico e religioso e che elabora una strategia per frenare la dissonanza cognitiva che si produce fra i suoi membri all’indomani del trionfo del sunnismo. Per il quarto punto, infine, se per i sunniti la Legge coranica (shari’a) è un codice di norme che possono essere oggetto di una interpretazione limitata al rispetto della lettera dei testi sacri, per gli sciiti essa può essere interpretata in modo innovativo, traendo da essa significati non ancora resi evidenti dal lavoro ermeneutico precedente: se per i primi l’interpretazione è più giuridica, per i secondi è invece più mistica, spirituale e dunque non fissata alla lettera della norma. L’aspetto sociologicamente importante da analizzare è che a seguito della fine dell’unanimismo religioso in seno alla comunità islamica si determina un processo a catena di scissioni. La centralità del potere califfale, una volta venuto meno, ha come corrispettivo la diffusione di movimenti e gruppi religiosi del tipo setta. L’Islam diventa una religione plurale, senza perdere però un minimo comune denominatore alla base dei diversi sub-sistemi di credenza che si vengono a formare in seguito alle piccole e grandi scissioni interne.