Un’analisi sociologica della paura della religione e cultura islamica, terza parte

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Un’analisi sociologica della paura della religione e cultura islamica, terza parte

Dagli attentati terroristici avvenuti in questi anni, soprattutto dall’11 settembre 2001 fino agli anni recenti, si è venuta a creare una paura dell’Islam.
Ma cos’è l’Islam? Come mai i mass media parlano di attentati terroristici di matrice islamica? Nel campo dell’educazione, noi educatori, quali strumenti di formazione e di convivenza civica possiamo adoperare?
Con queste domande si è svolta una ricerca dal titolo: 
 من ترس ندارم Un’analisi sociologica della paura della cultura e religione islamica di cui condividiamo alcuni stralci con i lettori di Viverealtrimenti. Attraverso questa si è cercato di dimostrare quali sono le basi sociologiche, antropologiche che diffondono la paura nei confronti dei fedeli musulmani, caratterizzata da sentimenti di odio e razzismo trasmessi dai mass media e capire quali strumenti poter utilizzare affinché si possa parlare di dialogo interculturale e interreligioso.

Con questo terzo post, di approfondimento, entriamo nello specifico delle differenze tra Islam integralista, fondamentalista ed estremista.

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Carina Gregorilaureata in Educatore Professionale di Comunità presso l’Università degli Studi di Roma Tre. Sta frequentando il Master in Educazione Interculturale promosso dal CREIFOS (Centro di Ricerca sull’Educazione Interculturale e la Formazione e allo Sviluppo).

 

 

Differenza tra: Islam Integralista, Fondamentalista ed Estremista

 

In un recente libro, Tariq Ramadan, nipote del leader dei Fratelli Musulmani, Hasan al-Banna, imputa al pensiero e all’azione di Ibn ‘Abd al-Wahhab (1703-1792) le origini del movimento riformista e in generale della rinascita islamica. Questo pensatore arabo, al-Wahhab, non è tanto il primo riformista moderno, ma quanto il primo ad aver costruito e riarticolato il discorso sul mito dell’età d’oro dell’Islam e sulla necessità di “tornare alle origini”. Al-Wahhab inventa uno stile retorico che farà molta fortuna, al di là degli esiti che poi concretamente il suo pensiero otterrà dando vita e animando un movimento di risveglio religioso. Egli in buona sostanza cercava di spiegare a se stesso e ai suoi correligionari perché l’Islam fosse entrato in una fase di decadenza. E la risposta che egli si dava consistenza nel sottolineare che la causa degli insuccessi del mondo musulmano a fronte della potenza europea non risiedesse tanto nell’inadeguatezza economica o nel gap tecnologico- militare che divideva il primo dalla seconda, quanto piuttosto nello smarrimento dei valori religiosi autentici della fede islamica. I segni di smarrimento venivano indicati nell’ordine: nella dilagante corruzione politica, vistosa testimonianza del tradimento degli ideali della comunità giusta disegnata dalla Legge Coranica; dall’impoverimento della ricerca e della riflessione teologica e filosofica alla luce della Tradizione; dall’appiattimento dell’attività di interpretazione del Testo sacro sui canoni della pura imitazione; dalla crescente contaminazione della purezza del credo islamico da parte di credenze semi-pagane o magico-superstiziose. Tornare alle origini, significava per al-Wahhab, purificare la fede e attuare un vero risveglio religioso, culturale e sociale del mondo musulmano. Al-Wahhab perciò può essere considerato a giusto titolo un predicatore dotato di autorità carismatica e al tempo stesso un esegeta dei Testi sacri: la frequentazione della Parola rivelata produce un risveglio interiore in lui che lo convince a proporre ai suoi correligionari l’urgenza di un rinnovato rapporto spirituale con i Testi, superando la sclerosi delle interpretazioni della Legge coranica tutte ripiegate sulla tecnica giuridica e sull’eccessivo valore attribuito al parere degli esperti in diritto coranico. L’ispiratore alla lontana di al-Wahhab è un giureconsulto del XIV secolo, Taqi Al-Din Ahmad Ibn Taymyyia (morto nel 1328), che a sua volta aveva proposto di tornare alle fonti pure della religiosità islamica per rinnovare la società, esercitando l’arte dell’interpretazione spirituale della Parola contenuta nel Corano e nella Sunna, liberandola dalle incrostazioni che le scuole giuridiche avevano finito per stendervi sopra. Fintanto che non viene siglato il patto d’alleanza fra il leader religioso di questo movimento di risveglio, al-Wahhab, e il capo della tribù in questione, Muhammad Ibn Sa’ud, la riuscita sociale del movimento rimane incerta. È solo la felice congiuntura fra il risveglio religioso e il progetto di egemonia politico- territoriale che consente in definitiva ad al-Wahhab di vedere messo alla prova il suo carisma e di constatare che la sua predicazione non era rimasta un’astratta utopia. Questo movimento nel suo furore iconoclasta ha combattuto violentemente tutte le forme di misticismo e di culto dei santi diffuse nell’islam popolare del suo tempo e, in secondo luogo, nel momento in cui i Sa’ud conquistarono definitivamente il potere nel 1932, essi instaurarono un regime della verità che chiude il passo ad ogni forma di “sforzo personale” di interpretazione della Sacra Scrittura e si affrettano a ripristinare il potere dei dottori della Legge, costruendo uno Stato fondato sull’alleanza fra un clan e il potere tradizionale religioso. Nel panorama dei movimenti di risveglio religioso islamico della fine del Settecento non c’è solo il Wahhabismo. In altre aree periferiche del mondo musulmano si sono sviluppati infatti altri movimenti di risveglio che rivestono un certo interesse per la tipologia sociologica che essi concorrono a formare. Essi si sono presentati in genere con due caratteri tipici: l’emergenza di un leader carismatico, da un lato, e la mobilitazione socio-religiosa sulla base di una rinnovata etica guerriera (il jihad) sia contro popoli vicini rivali e “infedeli” sia contro la penetrazione coloniale. L’ondata del risveglio, iniziata in Arabia agli inizi dell’Ottocento e proseguita in diversi punti del mondo musulmano per circa settanta-ottanta anni con alterne fortune, si esaurisce nella prima decade del Novecento, quando il dominio coloniale francese e inglese si impone definitivamente con la forza delle armi. Tra il 1870 e il 1930 in particolare appariva chiaro alle menti più vigili dell’intellighenzia religiosa e politica musulmana come, con una espressione ellittica, l’islam fosse preso in una tenaglia: da un lato la disgregazione sempre più visibile dell’Impero ottomano, dall’altro la crescente potenza degli europei che avanzano in Africa, in Asia e nel Vicino Oriente e che impongono la propria egemonia invasiva e pervasiva sul mondo musulmano. Di fronte alle manifeste difficoltà dell’Islam di proporsi come alternativa credibile all’avanzata dei valori occidentali, al seguito delle flotte e degli eserciti europei modernamente armati, la riflessione che il mondo musulmano avvia è ben diversa rispetto ai movimenti del risveglio. In questi ultimi il potente mito del ritorno alle origini dell’Islam ha fatto velo in molti casi a quale fosse la reale posta in gioco fra Islam ed Europa nel mondo islamico. Certo il risveglio ha voluto dire molte cose sociologicamente rilevanti: la ripresa di un tipo di mobilitazione per fede carismatica assieme al tentativo di riaprire la porta dell’interpretazione dei Testi sacri, con la conseguente finalizzazione della rinnovata esegesi coranica all’azione immediata. Altra cosa sono i movimenti riformisti sorti tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Essi nascono nella mente di alcuni grandi intellettuali, prima ancora di configurarsi come tali. E dunque possono vantare alle loro spalle una riflessione spesso pacata e argomentata e non l’impulso creativo dell’azione di tipo carismatico. Più che di movimenti in realtà, da un punto di pensiero che fanno capo a intellettuali di varie regioni del mondo musulmano, correnti di pensiero che hanno successivamente generato associazioni religiose o gruppi politici, che hanno a loro volta una discreta influenza nelle società dove questi intellettuali hanno agito. Che si tratti di un reticolo è in un certo senso confermato dalla dislocazione geografica dei primi padri del riformismo: Jamal al-Din al-Afghani (1838-1897: persiano o afghano e sciita o sunnita: non è facile determinarlo date le incerte fonti relative alla sua biografia); Muhammad ‘Abduh (nato nel 1849), egiziano, sunnita e sufi; Rashid Rida (1865-1935), egiziano anch’egli, discepolo di ‘Abduh; Said al-Nursi (nato nel 1878), turco di origine curda; ‘Abd al-Hamid Ibn Badis (1889- 1940), algerino; Muhammad Iqbal (nato nel 1873), indiano. Vivono in luoghi e tempi diversi, finendo, tuttavia, per parlare uno stesso linguaggio e per marcare con la loro convinta predicazione delle idee riformiste il pensiero delle nuove generazioni che si affacciano nel XX secolo. Il capofila è indubbiamente al-Afghani e il centro di irraggiamento per eccellenza delle idee riformiste è altresì fuori di dubbio l’Egitto, paese nel quale quasi tutti i personaggi che abbiamo menzionato o approdano attratti dalla vivacità culturale che si respira nella società egiziana del tempo od operano perché vi sono nati. È fondamentale mettere in evidenza in riferimento al riformismo l’affermarsi di un approccio socio-culturale nuovo rispetto al risveglio islamico in riferimento al problema del rapporto asimmetrico fra Islam e Occidente. L’approccio nuovo, così come può essere imputato alla riflessione condotta da al-Afghani, è sintetizzabile nei termini seguenti:
a) Si indica la necessità di riformare dall’interno l’Islam per consentire di reggere il confronto alla pari con la potenza culturale (oltre che economica, scientifica e militare) dell’Europa;
b) Riformare significa allora riscoprire le potenze razionali assopite che l’Islam avrebbe da sempre incoraggiato a sviluppare alla luce della rivelazione religiosa;
c) Questa opera di riforma deve essere condotta in più direzioni: rivisitando il pensiero filosofico arabo e persiano del passato, riaprendo la porta dell’interpretazione o dell’esegesi coranica, superando la rigidità della scienza giuridica applicata alla Legge religiosa e rimettendo in movimento le facoltà della ragione nello sforzo di adattamento del dato di fede ai cambiamenti indotti nel corso degli eventi storici, restituendo così all’Islam una purezza che è andata perduta od occultata dal lavoro di costruzione di una complessa armatura giuridico-religiosa e soprattutto dalla tecnica del commento ai pareri dei saggi del passato;
d) Solo attraverso questa imponente opera di riforma interna e spirituale l’Islam può ridare slancio all’azione sociale dei credenti puri di cuore che aspirano a vedere realizzata una società fondata sulla solidarietà islamica;
e) Per ristabilire, infine, una società fondata sulla fede religiosa islamica così rinnovata occorre un lavoro lungo, profondo e graduale: un processo di riforma, dunque, più che la scorciatoia di un gesto rivoluzionario.
Come si nota al-Afghani enuncia una serie di principi che sono ispirati da un lato a un sano realismo politico e dall’altro al riconoscimento che i mali dell’Islam derivino proprio da una mancata riforma. L’Islam è venuto ossificando. Rivitalizzarlo richiederà un processo di rieducazione delle coscienze che non potrà essere fatto dall’oggi al domani. Le idee di al-Afghani agiranno da lievito in altri pensatori, i quali si troveranno a volte alle prese, in situazioni contingenti, con la presenza straniera avvertita quale minaccia all’indipendenza politica e alla identità culturale dei musulmani; nel fuoco di questi conflitti l’appello alla riforma si coniugherà con il moto di ribellione e di presa di coscienza nazionale di popoli oppressi dal dominio coloniale. È il caso ad esempio sia di Muhammad ‘Abdu in Egitto che di Ibn Badis in Algeria. Questi due autorevoli esponenti del riformismo ripetono concetti che abbiamo già visto in al-Afghani, ma in più aggiungono un forte sentimento nazionalistico: la fede religiosa non è incompatibile con la ragione, dunque sviluppiamo le nostre potenze razionali per risorgere e risollevare le sorti dei paesi musulmani oppressi dal colonialismo europeo. Il nazionalismo si sforzerà di far compiere al pensiero musulmano un passo in avanti verso la via di una riforma interna, verso un rinnovato sforzo intellettuale per estrarre dall’Islam tutte le risorse simboliche e culturali funzionali a ridefinire l’identità collettiva di interi popoli e di intere società. Il giro di pensieri che questi due intellettuali descrivono, infatti, tende con alcune lievi differenze a ripetersi. La convinzione che nel riformismo si fa strada è che solo nell’Islam ormai i popoli di fede musulmana possano trovare la strada per rinnovare la scienza e l’economia, la politica e la morale. Non si possono invocare riforme che rischino di svuotare il contenuto di verità della fede islamica. Nei fondamenti del grande codice religioso dell’Islam, secondo i riformisti, bisogna rintracciare le forme specificamente musulmane per organizzare e governare la politica e l’economia, così come la famiglia e l’educazione della prole e così via. Da qui un costante lavoro per ricercare le corrispondenze biunivoche e le affinità elettive fra concetti propri della cultura politica moderna occidentale e le istituzioni proprie dell’Islam. Nell’Islam correttamente interpretato, secondo questa linea di ricerca, il musulmano può trovare una modernità islamica che nulla deve alla modernità europea. Da qui l’idea, che è stata esplorata dall’egiziano Rashid Rida per primo, di una terza via fra i modelli che si erano venuti imponendo nei paesi arabo-musulmani: fra l’appello alla rinascita della nazione araba e l’adozione acritica della forma statale “all’occidentale”, la terza via della riforma interna dell’Islam. A fronte di questa linea di pensiero, che potremmo definire di riformismo religioso, si attesta un’altra linea, non meno importante ma perché quest’ultima è riuscita ad incidere molto di più rispetto della prima. Si tratta di un pensiero che si tradurrà ben presto in un momento di tipo politico che si sforzerà di promuovere riforme sociali, politiche ed economiche nella direzione di una reale modernizzazione dello Stato e della società per bloccare il processo di disgregazione in atto. Un riformismo pragmatico, che non pone al centro della riflessione e dell’azione l’Islam in quanto tale. Anzi, alla fine chi pagherà il prezzo più elevato di questo tipo di riformismo sarà proprio l’Islam. Se il primo, quello che abbiamo chiamato religioso, si è sforzato di conciliare Islam e razionalità moderna, il secondo ha decisamente separato le sorti della modernità islamica. Su questa questione infatti si sono affermati i movimenti radicali e fondamentalisti.
L’anello di congiunzione fra il riformismo e il neo-fondamentalismo contemporaneo è rappresentato dalla figura del fondatore dell’associazione dei Fratelli Musulmani: Hasan al-Banna (1906-1949). Questi può essere considerato in senso metaforico il ponte che collega idealmente l’esigenza di ritornare alle origini dell’Islam, che era già stata espressa da una parte dei riformisti, e l’urgenza di rifondare dal basso un’identità religiosa e culturale che rischiava, a parere di molti, di andare perduta sotto l’influenza della cultura occidentale. Quando nel 1928 assieme a sei compagni al-Banna fondò nella città di Isma’iliyya (in Egitto) il primo nucleo dei Fratelli Musulmani, egli aveva probabilmente chiare nella sua mente le potenzialità sociali e culturali che questo movimento avrebbe saputo e potuto mobilitare. E forse egli immaginava che le cose sarebbero andate così, che il movimento sarebbe presto diventato un modello da seguire anche in altri paesi. Se questo modello ha avuto successo è perché la formula creata da al-Banna si è rivelata efficace nel lungo periodo. L’originalità e la specificità della formula può essere sintetizzata così: unire il lavoro di base di re-islamizzazione dal basso della società alla mobilitazione più strettamente politica al fine di far corrispondere le strutture dello Stato con la nuova identità musulmana ricostruita nella società civile. In altre parole, far crescere in seno a quest’ultima un movimento innervato nelle pieghe della società per poter piegare la logica del potere politico al primato della Legge coranica. La radice del progetto di Hasan al-Banna si inscrive e si intreccia con la biografia spirituale del leader. A dodici anni lo troviamo già murid (discepolo) di una tariqa, la confraternita al- husafiyya al-shaziliyya. Si tratta di una fase importantissima della sua vita, perché essa coincide con una profonda esperienza religiosa, che dunque segna in modo decisivo la sua vita, nella mente e, soprattutto, nel cuore. Al-Banna mostra subito di non accontentarsi della meditazione mistica e dello studio dei Testi sacri; sente il bisogno di comunicare la propria esperienza nella convinzione che attorno a lui cresca l’indifferenza o più semplicemente un tradizionalismo di maniera sempre più povero di motivazioni religiose autentiche. Tant’è che fra i 14 e i 17 anni lo troviamo a capo di un’associazione, diretta emanazione della confraternita della husafiyya, che si propone un’azione missionaria con il duplice scopo di risvegliare le coscienze assopite all’Islam e di combattere la predicazione delle missioni straniere cristiane. Tutto ciò lo porta a sviluppare ben presto un acuto senso di osservazione della realtà e soprattutto una quasi naturale predisposizione al colloquio con le persone incontrate per le strade e le piazze dei villaggi. Al termine degli studi presso la Casa della Scienza al Cairo viene inviato nella città di Isma’iliyya come insegnante in una scuola elementare. L’attività di insegnamento e i contatti con la gente del quartiere rafforzano ancora di più in lui la convinzione di dedicarsi ad una assidua opera di predicazione “di strada”, riprendendo in modo più sistematico un esperimento compiuto già al Cairo: andare nei caffè e interpellare le persone sulle questioni della fede. La città in cui egli agiva allora aveva una particolarità: ad ovest era installato un campo militare inglese e la presenza dello “straniero” si faceva sentire nella vita quotidiana. Il che prelude alla scoperta per al-Banna del Nemico reale e simbolico allo stesso tempo dell’Islam: reale, incarnato negli inglesi invasori; simbolico, perché la loro presenza era la causa della corruzione dei costumi e della perdita di identità religiosa per i musulmani. Si tratta di un passaggio fondamentale per al-Banna: risvegliare l’Islam significherà d’ora in poi non tanto carpire i segreti del successo del Nemico, ma quanto piuttosto contrastarne la forza egemonica cercando di attuare una via islamica autonoma alla modernità. Il movimento dei Fratelli Musulmani nasce radicato fra i ceti popolari; nel giro di dieci anni l’associazione di al-Banna non solo si diffonde in altri centri urbani, aggregando persone di estrazione sociale medio-alta, ma assume anche una forma organizzativa policentrica e modulare, che vale la pena descrivere per comprendere l’ideal-tipo socio-religioso cui al-Banna dà vita. Innanzitutto l’idea forte di al-Banna è stata quella di creare una rete di tante piccole cellule sparse nel territorio responsabilizzando una o più persone di sua fiducia; in secondo luogo organizzare le persone non in modo generico e indifferenziato, ma flessibile, adattando sia il messaggio ideologico che la formula organizzativa alle diverse pieghe della società: un ramo dedicato ai ragazzi e ai giovani, un altro alle donne madri di famiglia alle quali affidare una parte della catechesi delle fanciulle, un altro a sua volta articolato per categorie professionali e così via. Un modello “a pilastro” o a forte radicamento sociale, che solo può spiegare la forza del movimento e soprattutto la sua capacità di durare nel tempo, resistendo a pesanti ripetuti tentativi di distruzione da parte dei regimi politici ostili ad esso. Si è venuta così delineando l’originalità e la specificità del movimento: ricreare dalle fondamenta una micro-società islamica all’interno di una società più vasta, secolarizzata e corrotta dall’invasione fisica e simbolica dello “straniero” europeo. Sino al 1936 si può dire che l’attivismo politico dei Fratelli si era mantenuto piuttosto ridotto. È a partire dal 1939 che il movimento accelera la sua azione di tipo sociale e politico. Di fronte alla manifesta acquiescenza delle autorità governative egiziane nei confronti della presenza sempre più pesante degli inglesi, da un lato, e della non reazione ai propositi degli ebrei di creare uno Stato in Palestina, dall’altro, al-Banna intensifica i suoi attacchi al governo. Nell’ottobre del 1941 egli verrà arrestato e i Fratelli Musulmani messi al bando. Questo evento segna l’inizio di una svolta importante nella storia dell’organizzazione. A partire da questo momento, in ogni caso, si può affermare che matura rapidamente in seno ai Fratelli l’idea della necessità di prepararsi a entrare nella clandestinità per resistere agli attacchi del governo filo-inglese; questo passo viene ritenuto estremo, dal momento che al-Banna, rimesso in libertà dopo un mese, continuerà a pensare che sia possibile praticare una via parlamentare di opposizione. Nel 1944, infatti, in occasione delle elezioni politiche, egli si candida e riesce a farsi eleggere. Si susseguono manifestazioni imponenti che mescolano slogan religiosi a slogan nazionalisti, contro gli inglesi e contro i governi ritenuti deboli nei loro confronti. Dal 1944 al 1948 al-Banna diviene un personaggio religioso e politico ormai di prima grandezza. L’associazione sbanda paurosamente e precipita due mesi dopo, nel febbraio 1949, sull’orlo della crisi quando due sicari assoldati dai servizi segreti feriscono gravemente, sul far della notte al Cairo, Hasan al-Banna, il quale poche ore dopo morirà dissanguato in ospedale. L’associazione riesce a parare il grave colpo della morte del suo leader e si riorganizza politicamente offrendosi di allearsi con il nascente movimento degli “Ufficiali liberi” guidati da ‘Abd al-Nasir (Nasser), per portare a compimento la destituzione del regnante in carica (Faruk I) e la creazione di una repubblica popolare. Questo processo si compie con la rivoluzione del 23 luglio 1952. Il tramite fra il movimento degli Ufficiali e i Fratelli Musulmani fu allora assicurato da Anwar Sadat, che più tardi succederà a Nasser. Sadat sarà artefice degli accordi di pace fra Egitto e Israele, conciliazione questa che gli costerà la vita ad opera di un militante di una frazione islamica estremista che lo aveva accusato di essere un traditore degli ideali dell’Islam e di aver svenduto al nemico la causa palestinese: Sadat come un novello Faraone andava perciò giustiziato.
I Fratelli Musulmani scopriranno ben presto che le speranze riposte in Nasser erano andate deluse. Il modello di Stato che il Rais andava disegnando non contemplava l’Islam come struttura portante. Da qui il conflitto aperto con l’associazione. Questa sarà sciolta d’imperio all’indomani di un fallito attentato a Nasser da un membro dei Fratelli Musulmani. Molti dirigenti verranno arrestati. Finirà anche in carcere una figura di primo piano del movimento, Sayyd Qutb, il quale diventerà ben presto il punto di riferimento ideologico non solo dei Fratelli ma di tutti i movimenti radicali contemporanei. Anche Qutb non sarà solo un leader politico. Egli si accrediterà anche come un esegeta del Corano, dunque una persona che si è sforzata di tenere assieme il piano della riflessione religiosa con quello dell’azione politica.

È infatti in carcere che Qutb scriverà una delle opere più importanti per comprendere l’ideologia del neo-fondamentalismo contemporaneo: si tratta del lavoro intitolato All’ombra del Corano (Fi zilal al-Qur’an), pubblicato in fascicoli fra il 1954 e il 1964. Qutb verrà impiccato e il suo nome resterà così legato a quest’opera e ad altre di non minore importanza. Attraverso una puntuale esegesi del Corano e della Sunna Qutb si esercita nel compito di tracciare il modello ideale di Stato Islamico. Ci troviamo con lui di fronte a una scienza politica della religione: le conoscenze religiose vengono messe a profitto della costruzione del modello di polis moderna ritenuto integralmente coerente con l’Islam. Sono due i pilastri su cui deve poggiare uno Stato Islamico:


a) Il principio della guida suprema, che gode di speciali predilezioni divine (amir),
b) E il principio della consultazione (shura).


La guida è concepita come un leader carismatico, portatore riconosciuto da parte della comunità dei credenti di un potere straordinario, religioso e politico assieme, di difensore della fede e di illuminato uomo di Stato. Il principio della Shura diventa così per Qutb non l’escamotage inventato dai riformisti per proporre un organismo democratico e costituzionale all’interno dello Stato Islamico, quanto piuttosto un’istituzione giudicata autenticamente islamica che riunisce il gruppo scelto di militanti, il quale è chiamato a cooperare con il capo per produrre il massimo sforzo (ijihad) di adattamento della Tradizione ai mutamenti sociali e storici, secondo la formula del “diritto in movimento”. L’avanguardia dei credenti è così identificata da Qutb con il consenso carismatico che la comunità conferisce al suo capo e di riflesso ai suoi fedelissimi. Con Qutb il radicalismo prende forma e attecchisce in ambiente sunnita. Molti hanno sottolineato la differenza fra la lotta alla luce del sole delineata da Hasan al-Banna e la teorizzazione della lotta armata clandestina preconizzata in carcere da Qutb. In particolare le differenze si accentuano quando si legge con attenzione un’altra opera di Qutb, Ma’alim fi al-tariq (Pietre Miliari), scritta nel 1962, quattro anni prima di essere giustiziato. Qutb viene impiccato nel 1966 insieme ad altri due esponenti di spicco dei Fratelli Musulmani (Muhammad Hawwash e ‘Abd al-Fattah Isma’il). Essi sono le vittime sacrificali che il regime politico nasseriano offre all’opinione pubblica interna e internazionale per dimostrare la via di non ritorno verso la modernizzazione politica e culturale imboccata dal nuovo Stato egiziano. La repressione nei confronti dell’associazione dei Fratelli è molto estesa e capillare, volta a sradicare il movimento che nel frattempo aveva proliferato in tutto il territorio. Secondo fonti interne dei Fratelli Musulmani furono impiccate tre persone, trentotto morirono in prigione a seguito di torture e stenti, fra le cento e duecento arrestate, mentre quasi 18.000 militanti furono inquisiti, subendo violenze e torture. L’offensiva di Nasser ebbe un duplice effetto. Da un lato egli si accreditava agli occhi dei paesi occidentali con i quali aveva inaugurato la politica economica della “porta aperta” come uno statista moderno in lotta contro l’oscurantismo e il fanatismo, dall’altro il Rais riusciva momentaneamente a mettere in crisi l’organizzazione creata da Hasan al-Banna e guidata da Hasan al-Hudaybi.
Da Qutb in poi i movimenti collettivi a base religiosa e politica che in nome dell’Islam si aggregano in diverse realtà nazionali (dal Pakistan all’Algeria, dalla Tunisia al Sudan) si propongono in modo sempre più convinto che è finito il tempo del compromesso. O meglio dei compromessi sia con i modelli socio- culturali e politici di matrice occidentale che con le classi dirigenti nazionali emerse dopo la fine del colonialismo. Spesso queste ultime vengono dipinte come il volto vero Nemico dell’islam, peggiore del Grande Satana Occidentale. Tra la fine tragica di Sayyd Qutb e la presa di potere da parte degli ayatollah il sogno di uno Stato islamico si materializza, lontano, certo, dal Cairo, ma a Teheran. Pur sussistendo forti differenze e latenti tensioni teologiche e politiche fra mondo sunnita e mondo sciita, l’evento della rivoluzione iraniana colpisce l’immaginario collettivo dei musulmani, rafforzando in una parte di essi la convinzione di poter finalmente battere una via autonoma (islamica), diversa sia dal nazionalismo arabo post-coloniale che dal socialismo adattato alla logica neo- patrimoniale dei nuovi clan emergenti, in vista della costruzione dello Stato islamico. L’utopia dello Stato etico appare a portata di mano, anche se gli altri movimenti che si affacceranno sulla ribalta della storia contemporanea declineranno in modo a volte diverso il paradigma generale della statualità islamica.
I movimenti radicali islamici funzionano come piccoli e grandi attori collettivi che devono vedersela con le risorse umane e simboliche presenti nell’ambiente sociale nel quale diventano protagonisti e antagonisti del potere costituito, con i vincoli interni e internazionali che si frappongono nel loro agire. Attori collettivi che inventano forme di aggregazione, sperimentando repertori di azioni adeguati al raggiungimento di fini strategici, come la strutturazione di una forte identità religiosa e politica fra i militanti, la selezione dei quadri dirigenti e la definizione della leadership. La tipologia sociologica avanzata a suo tempo dallo Smelser nel suo testo Il comportamento collettivo per spiegare le dinamiche dei movimenti collettivi si può applicare senza particolari problemi anche ai movimenti di cui stiamo parlando. Smelser indica fra le condizioni alla base dell’origine dell’azione collettiva:


a) La propensione strutturale, cioè l’esistenza di condizioni sociali favorevoli allo sviluppo di movimenti collettivi, di canali che oggettivamente permettono ad un attore sociale di muoversi e di organizzare forme di protesta o di alternativa di potere;
b) La tensione strutturale che produce le premesse per il manifestarsi di contraddizioni economiche, sociali e culturali sulle quali si innestano i movimenti collettivi;
c) La diffusione di credenze generalizzate, cioè di un universo di simboli che danno forza e senso al repertorio di azioni concrete.


Le propensioni strutturali sono rintracciabili proprio nel fatto che nell’islam non esiste un’autorità religiosa che possa autorevolmente disciplinare i comportamenti collettivi: tutto ciò lascia grande spazio, nelle società moderne di tradizione musulmana, alla nascita di leader che si accreditano interpreti del Corano e della Sunna senza che abbiano compiuto studi o seguito il canonico cursus studiorum che abitualmente precede la “professione” di un dotto coranico, di un giure-consulto o di un semplice funzionario di moschea. Le contraddizioni che favoriscono l’insorgere dei movimenti in questione, come si può facilmente intuire, non mancano: le promesse della modernizzazione sono andate deluse per motivi vari e complessi che meriterebbero una trattazione a parte, sia quelle di un benessere più diffuso che di uno Stato meno corrotto di quanto non appaia agli occhi della maggioranza dei cittadini delle principali nazioni di tradizione musulmana. L’islam diventa allora in molti casi la voce per gridare i motivi della delusione e della protesta e per articolare il linguaggio dell’opposizione politica ai regimi al potere, un linguaggio che, nella convinzione dei leader dei movimenti, non appare, per definizione, afono e incomprensibile alla maggioranza dei musulmani.
I gruppi radicali sunniti proseguiranno così la loro lotta nel confronti del “potere empio”, mentre in Iran fra il 1979 e il 1989 gli ayatollah inventeranno un modello di Stato repubblicano (con una costituzione e con degli organismi parlamentari diversi, articolati secondo una particolare concezione della divisione dei poteri) formalmente ancorato alla Legge coranica. Nel frattempo, nel 1987 anche nel campo sunnita si verificherà un altro evento importante: il Fronte nazionale islamico sudanese, guidato dai Fratelli Musulmani di Hasan al Turabi, conquista il potere a Khartum, grazie all’appoggio dei militari, e vi si installa stabilmente, nonostante i gravi conflitti che si apriranno con le regioni meridionali abitate da cristiani e animisti, i quali fanno resistenza (anche armata) all’imposizione della Legge coranica su tutto il territorio nazionale. A partire dagli anni Ottanta il conflitto sociale e politico che i movimenti collettivi radicali interpretano assume sempre più una dimensione armata, giustificata religiosamente, che prende avvio da un clamoroso attentato che la Jihad Islamica egiziana, un gruppo guidato da Salam Faraj, compie contro Anwar Sadat, accusato di aver tradito la causa islamica, firmando un’intesa di pace con Israele. Faraj applica puntualmente l’insegnamento qutbiano del jihad: uccidere il nemico interno (traditore della fede) diventa un obbligo di fede, che Faraj rimprovera ai dotti della Legge coranica di avere volutamente posto in oblio, mentre esso fa parte dei pilastri stessi dell’Islam, assieme alla preghiera o al pellegrinaggio e così via.
La Jihad, come la Jama’at Islamiyya pakistana, è una filiazione dei Fratelli Musulmani ai quali la prima rimprovera la svolta moderata e parlamentare assunta sotto la leadership di al-Hudaybi.
La Jihad e la Jama’at porteranno ciclicamente, ma con continuità, il loro attacco ai soggetti-simbolo del potere corrotto. Così cristiani, ebrei, turisti occidentali, tutti coloro che sono accusati di essere “portatori di valori impuri” e complici del “complotto mondiale contro l’Islam”, diverranno bersaglio della loro violenza sacra. Anche in Algeria l’islamismo radicale assumerà un volto armato. L’annullamento della vittoria elettorale del FIS, il Fronte Islamico di Salvezza, che nel 1991 trionfa nel primo turno delle elezioni politiche e verrà successivamente posto fuori legge, provocherà la dura risposta del radicalismo. Dapprima l’AIS, Armata Islamica di Salvezza, braccio armato della disciolta organizzazione, poi il GIA, Gruppi Islamici Armati, una costellazione di piccoli gruppi che dissentono dalla tattica attendista del FIS, organizzano una resistenza al potere che si trasformerà presto, per opera soprattutto dell’azione del GIA, in guerra totale contro il potere ritenuto empio.
Il GIA forza oltre ogni limite teologicamente consentito la dottrina del jihad sino a colpire soggetti, come donne e bambini, che la tradizione religiosa islamica ha sempre messo al riparo da qualsiasi azione violenta.
Nel jihad del GIA l’aspetto simbolico assume così una dimensione decisiva pari alla decisione con cui i suoi militanti compiono stragi e azioni violente inaudite. Si ha a volte l’impressione che l’omicidio (di tante vittime che sono spesso innocenti) costituisca una vera e propria impresa collettiva che ha per fine non solo quello di diffondere terrore nel tessuto sociale, ma anche quello di lanciare messaggi simbolici molto forti, stravolgendo segni di contenuto religioso e facendoli diventare critica delle armi. Così i militanti del GIA arrivano a sostenere che le vittime vengono sgozzate in certo modo per obbedire a una ritualità ben precisa: esse sono considerate “animali impuri” e dunque devono essere decapitate. Nel fondamentalismo islamico del secolo che ci siamo lasciati appena alle spalle, ricompaiono movimenti che uniscono tratti tipici del risveglio con quelli propri del radicalismo. È il caso dell’Afghanistan, un paese strategico dopo la caduta del regime comunista e la fine del mondo bipolare (URSS- USA) per via dello sfruttamento delle risorse petrolifere e minerarie dell’Asia Centrale. Qui si è imposto un movimento di monaci- guerrieri, i Talebani. Essi si sono impadroniti di quasi di due terzi del territorio afghano e hanno instaurato un regime fondato su una interpretazione della Legge coranica iperrigorista e puritana, ancora più rigida di quella praticata in Arabia Saudita wahhabita. Il regime è stato abbattuto nell’autunno del 2001 dall’intervento di una forza multilaterale guidata dagli USA, per reazione dell’attentato alle Torri Gemelle di New York. L’ambiente che ha favorito la formazione della nuova élite islamista che prende il sopravvento sulle fazioni tribali in lotta per il controllo del territorio, subito dopo la fine del regime filo-sovietico e della lunga guerra della resistenza armata contro l’esercito di Mosca, avvenuta nel 1992, ha delle caratteristiche sociali e religiose precise. Il movimento dei Taleban si forma, infatti, nel 1994 a Kandahar, raggruppando le nuove generazioni di etnia pashtun (una delle più importanti, giacché essa rivendica per sé il privilegio di aver rappresentato la continuità storica dell’Afghanistan durante tutti i domini coloniali, da quello inglese e quello sovietico), che avevano combattuto nella resistenza contro il regime comunista a Kabul e che erano state reclutate e formate nei campi dei rifugiati ai confini con il Pakistan durante la guerra contro Mosca. Il leader del movimento, il mullah Omar, gli imprime una carica puritana, con l’intento di ripristinare non solo l’ordine sociale sconvolto dalla lunga guerra contro i sovietici e dalla guerra civile fra tribù avversarie, ma anche un nuovo ordinamento politico- religioso, uno Stato delle virtù islamiche da imporre con la forza a tutta la popolazione afgana. Tra il 1994 e il 1996 il movimento strappa palmo a palmo i territori controllati dalle tribù del Nord e dell’Ovest e, nel mese di settembre, sfonda definitivamente nella capitale, Kabul. Appena arrivati al poter, i Talebani organizzano un sistema di potere che riflette letteralmente l’antico principio della hisbah: combattere moralmente il male e promuovere il bene. Se non che tutto ciò finisce per trasformarsi in uno dei più arcaici regimi della Verità che l’Islam abbia mai conosciuto. L’emancipazione della donna, che era avvenuta parzialmente sotto il regime comunista, diviene il bersaglio della politica puritana dei nuovi padroni di Kabul. Come nota giustamente Renzo Guolo nel suo testo Il fondamentalismo islamico, si tratta di un governo tribale, che non ha nessuna conoscenza e competenza di come debba e possa funzionare uno Stato.
Questo spiega la scelta da parte di Osama Bin Laden di trasferirsi in Afghanistan e far diventare questo lembo di terra in una zona franca, dove riorganizzare le fila dei tanti reduci ed ex combattenti radicali, sconfitti nelle società d’origine e in rotta dalle loro rispettive patrie. Dall’Algeria al Sudan, dal Marocco alle Filippine, dall’Egitto all’Indonesia. Osama può contare su grandi risorse finanziarie e su una rete di militanti sparsi in tutto il mondo. Da un lato, egli contribuisce a costruire scuole, ospedali e moschee, dall’altro condiziona sempre più le scelte del gruppo dirigente dei Talebani, convincendolo a sposare la causa per cui egli si batte con il suo movimento al-Qai’da (La Base). Nel 1998, l’alleanza si consuma: nasce a Kabul il Fronte islamico mondiale “per la lotta contro i crociati e i sionisti”. La politica di costruzione del paese passa così in second’ordine perché Osama chiede a Omar di trasformare l’Afghanistan in un’enorme retrovia dove far affluire i militanti da tutto il mondo musulmano per seguire l’addestramento militare funzionale ai progetti di attentati che bin Laden ha già cominciato a progettare e a mettere in pratica. Nel maggio del 1998, non a caso, i Talebani osano ordinare agli americani di ritirarsi dall’Arabia Saudita, dove sono custoditi i Luoghi Santi dell’Islam, e chiamano al jihad tutti i musulmani per ottenere questo obiettivo. Con l’attentato al World Trade Center di New York, dell’11 settembre 2001, l’ideologia dell’jihad globale del movimento militare di al- Qai’da si esprime in tutta la sua potenza distruttiva. L’attacco agli USA provoca la conseguente azione militare, concertata a livello internazionale, contro l’Afghanistan, nell’ottobre del 2001, azione che, in poco tempo, spazza via il regime dei Talebani.
Ma, sotto le macerie di Kabul, non è morto invece ciò che resta del radicalismo militare di al-Qai’da, che è destinato ancora a colpire bersagli seminando vittime innocenti. Una triste parabola di una fase storica, che aveva visto il risveglio intellettuale musulmano e l’emergere di movimenti d’opposizione politica ai regimi autoritari al potere in molti paesi d’impianto musulmano. Dai movimenti radicali degli anni Ottanta all’esercito dei martiri-suicidi di Bin Laden, c’è una evidente discontinuità: la convinzione diffusa è che l’Islam non c’entri più niente con Bin Laden, ma che si tratti semplicemente dello spirito di guerra che si è impadronito delle menti e dei cuori di una ristretta minoranza di persone, che hanno visto fallire il loro progetto di Stato etico-islamico integrale in tutto il mondo islamico.
Dall’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, il movimento di al-Qai’da ha rivendicato in molteplici attacchi terroristi, in tutto il mondo. Attraverso questo elenco delle città coinvolte, si vorrebbe spiegare, che non solo l’Europa è vittima di questi attacchi, ma tutto il mondo ne risente.
Ecco una cronologia dei principali attentati:

-11 settembre 2001: STATI UNITI – Quattro voli di linea sono dirottati dai terroristi e tre si schiantano volontariamente contro le Torri gemelle del World Trade Center a New York e il Pentagono a Washington DC. Il quarto aereo precipita in Pennsylvania. Si tratta degli attentati – rivendicati da al- Qai’da – piu¹ gravi della storia, che provocano circa tremila morti;

-12 ottobre 2002: INDONESIA – Attacchi contro un bar-ristorante e una discoteca dell’isola di Bali, rinomata localita’ turistica, provocano 202 vittime, soprattutto turisti. L’azione terroristica e’ rivendicata da un commando della Jemaah Islamiyah (organizzata considerata vicina ad al- Qai’da);

-11 marzo 2004: SPAGNA – Una decina di bombe esplodono a Madrid e nella periferia della capitale a bordo di quattro treni, provocando 191 morti e circa duemila dispersi. L’attacco e’¨ rivendicato da al-Qai’da;

-luglio 2005: GRAN BRETAGNA – Quattro attacchi kamikaze coordinati durante l’ora di punta a bordo di tre treni della Tube, la celebre metropolitana di Londra, e un bus a due piani provocano 56 morti e 700 feriti nella capitale britannica. Gli attacchi sono rivendicati da un gruppo legato ad al Qaida;

-26-29 novembre 2008: INDIA – Fondamentalisti islamici assaltano alberghi di lusso, la principale stazione ferroviaria, un centro ebraico e altri siti nella metropoli di Mumbai, agguati in cui perdono complessivamente la vita 166 persone. L’11 luglio 2006, 189 persone erano state uccise e oltre 800 ferite in attacchi contro treni e stazioni ferroviarie nella periferia della citta’ indiana;

-21-24 settembre 2013: KENYA – Un commando armato assalta il centro commerciale Westgate a Nairobi, uno dei preferiti sia dai keniani sia dagli stranieri. L’attentato, rivendicato dagli estremisti al Shebab, provoca 67 vittime;

-7-9 gennaio 2015: FRANCIA – Due uomini armati di kalashnikov fanno irruzione nella redazione parigina del settimanale satirico Charlie Hebdo e uccidono dodici persone, tra le quali otto vignettisti. Una poliziotta e’¨ uccisa appena fuori Parigi il giorno successivo da un uomo armato, che poi prendera’ alcuni ostaggi all’interno di un supermercato kosher, quattro dei quali moriranno prima del blitz delle forze di sicurezza;

-18 marzo 2015: TUNISIA – E’ Rivendicato dall’Isis, contro il Museo del Bardo a Tunisi, costato la vita a 22 persone, quattro delle quali di nazionalita’ italiana;

-2 aprile 2015: KENYA – Si protrae per un giorno l’assedio all’Universita’ di Garissa, nell’Est: alla fine si contano 148 morti, quasi tutti (142) studenti. Rivendicato dagli estremisti islamici somali al Shebab, legati ad al-Qai’da, l’attacco è il più grave dai bombardamenti del 1998 contro le ambasciate americane;

-26 giugno 2015: TUNISIA – Uno studente armato di kalashnikov apre il fuoco in un resort sulla spiaggia di Sousse e fredda 38 turisti, compresi 30 britannici. L’attentato è rivendicato dall’ISIS;

-10 ottobre 2015: TURCHIA – Attacco kamikaze di fronte alla stazione ferroviaria di Ankara, dove giovani attivisti si erano radunati per una marcia per la pace: 102 persone muoiono, oltre 500 restano ferite. La procura di Ankara afferma che gli attentati, i peggiori nella storia della Turchia, sono stati ordinati dall’Isis in Siria;

-31 ottobre 2015: EGITTO – Un Airbus russo decollato da Sharm el-Sheikh si schianta nella penisola del Sinai, perdono la vita tutte le 224 persone a bordo. E’ il più grave disastro aereo nella storia della Russia. Lo rivendica un gruppo legato all’Isis. Washington e Londra si dicono convinte che lo schianto sia stato causato da una bomba a bordo;

-12 novembre 2015: LIBANO – Un attacco rivendicato dall’Isis contro una roccaforte del movimento sciita libanese Hezbollah nella parte meridionale di Beirut provoca 44 morti. E’ il più imponente attentato in Libano mai rivendicato dall’Isis, uno dei peggiori a colpire il Paese dalla fine della guerra civile del 1975-1990;

-13 novembre 2015: FRANCIA – Una serie senza precedenti di attentati provoca almeno 129 morti e altri 350 feriti. I terroristi colpiscono sei diverse zone venerdi sera, compreso lo Stade de France dove e’ in corso l’amichevole di calcio Francia-Germania e ristoranti e bar nel decimo e nell’undicesimo arrondissement di Parigi. La sala concerti Bataclan, ‘soldout’ per il concerto di un gruppo rock americano, E’ il bersaglio più colpito, con 89 morti. Il 14 novembre, l’Isis rivendica l’attentato;

-12 gennaio 2016: TURCHIA – Istanbul: kamikaze Isis fa strage di turisti. 8 sono tedeschi;

-19 marzo 2016: TURCHIA – Istanbul: L’esplosione nella parte europea della città. L’attentatore suicida è “il sesto morto”. Il governo prima accusa il Pkk, poi corregge: è stato un turco membro dello Stato Islamico;

-22 marzo 2016: BELGIO – Bruxelles: A tre giorni dall’arresto di Salah Abdeslam, questa mattina subito subito dopo le 8:00 due esplosioni hanno devastato l’aeroporto Zaventem di Bruxelles, seguite da un altro attentato a una stazione della metropolitana, quella di Maelbeek. Gli attentati provocano 34 morti;

-14 luglio 2016: FRANCIA – Nizza: è stato un attentato terroristico avvenuto il 14 luglio 2016 nel dipartimento delle Alpi Marittime a Nizza, in Francia, quando un uomo, alla guida di un autocarro, ha volontariamente investito in velocità la folla che assisteva ai festeggiamenti;

-17 agosto 2017: SPAGNA – Barcellona: un 22enne alla guida di un furgone si è scagliato contro la folla sulla via principale della città catalana. In totale sono morte 16 persone.

 


Poesia Il terrorista, lui guarda

 

La bomba scoppierà nel bar alle tredici e venti.
Adesso sono solo le tredici e sedici.
Alcuni faranno in tempo ad entrare,
Altri a uscire.

Il terrorista ha già attraversato la strada.
Questa distanza lo tiene in salvo dal pericolo,
e la visuale è proprio come al cinema.

Una donna con la giacca gialla, ecco entra.
Un uomo con gli occhiali scuri, lui esce.
Dei ragazzi in blue jeans se ne stanno a chiacchierare.
Le tredici diciassette minuti e quattro secondi.
Il più basso ha fortuna e salta sullo scooter,
quello più alto entra dentro.

Ore tredici e diciassette e quaranta secondi.
C’è una ragazza col nastro verde tra i capelli.
Ma ecco che l’autobus ne impedisce la vista.

Ore tredici e diciotto.
Non c’è più la ragazza.
Ma se è stata così sciocca da entrare,
lo si vedrà quando li porteranno fuori.

Ore tredici e diciannove.
Beh, non esce nessuno.
Ma ecco che esce ancora un uomo grasso e calvo.
Però, così, come se stesse cercando qualcosa per le tasche e
alle tredici e venti meno dieci secondi
rientra a veder se trova quei suoi miseri guanti.

Sono già le tredici e venti.

Ma come va piano il tempo.
Ecco, forse ora. No, non ancora.
Sì, adesso.
È la bomba che scoppia.

W. Szymborska, Vista con granello di sabbia, Adelphi, 1998.