Vivere poeticamente insieme: comunità intenzionali, ecovillaggi e cohousing

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Vivere poeticamente insieme: comunità intenzionali, ecovillaggi e cohousing

Di seguito un mio brano per il testo Residenze e resistenze creative

Il brano mi è stato richiesto dall’amica e collaboratrice Tiziana Colusso che ha, a sua volta, curato Co-housing: una parola moderna per una pratica antica per il testo Comunità intenzionali, ecovillaggi e cohousing.

Buona lettura!

Manuel Olivares

 

 

Abitare poeticamente la terra…la prima idea che mi viene in mente è che si dovrebbe  partire dal trovare un modo poetico, anzi, modi poetici di vivere insieme e che forse, trovandoli davvero, molti problemi sarebbero vicini ad una soluzione.

Le comunità intenzionali sono quei gruppi umani — più o meno circoscritti — che decidono di essere comunità a partire dall’intenzione di realizzare qualcosa in cui credono i loro membri: un ideale religioso, politico o anche, semplicemente, esistenziale.

Nel loro essere intenzionali differiscono dalle comunità spontanee: villaggi, paesi, municipalità.

Frugando nella storia scopriamo che si possono trovare esempi di comunità intenzionali a partire dall’era precristiana (un buon esempio in questo senso è rappresentato dalle comunità essene, balzate agli onori delle cronache con la scoperta dei rotoli del Mar Morto).

Da allora comunità intenzionali non sono mai mancate, ai margini (senza che il concetto di marginalità abbia qui alcuna connotazione negativa) del mainstream di ogni società grossomodo democratica.

C’è sempre stato qualche assembramento di “strani”, di diversi, di anticonformisti, credo sia un fenomeno sociale fisiologico e sia normale e “sano” che una percentuale, pur bassa, di persone non si ritrovi nello stile di vita dominante (al pari, ad esempio, di gruppi nomadici refrattari ad ogni integrazione/sedentarizzazione) e tenti di creare dei micro-mondi a propria immagine e somiglianza.

Oggi, tuttavia, questo fenomeno è, comprensibilmente, in aumento e non solo nel ricco e “democratico” Occidente.

In buona parte si lega alla spinosissima questione ambientale ed infatti si tende a parlare sempre di più di comunità intenzionali ecosostenibili per le quali si usa il termine più immediato di ecovillaggi.

Sono oramai migliaia nel mondo, mentre in Italia ci sono circa una cinquantina di esperienze più o meno collaudate. Il numero di membri oscilla tra le poche unità, le poche decine e, in casi più rari, poche centinaia (in Italia l’esperienza numericamente più consistente è la Federazioni di comunità di Damanhur, in Val Chiusella, Piemonte che conta circa mille persone distribuite in venticinque piccole comunità, organizzate in dieci regioni).

È interessante notare come nel mondo stiano convivendo due spinte opposte, seppur di ben diversa entità: da un lato la corsa alle città, nei paesi in via di sviluppo e, dall’altro, la pur minoritaria fuga dalle città, nei paesi sviluppati.

Sì perché lo sviluppo porta con sé i cosiddetti “valori post-materialisti” tra cui: la qualità della vita, dunque la necessità di respirare aria pulita, di mangiare cibo sano, di vivere in maniera meno alienante, eccetera.

Certo, non tutti scappano negli ecovillaggi anche perché non tutti sono abituati a vivere a stretto contatto con altri che non siano membri della propria famiglia (e sappiamo quanto anche in famiglia una stretta convivenza sia difficile) con cui dividere spazi, beni di vario genere e spesso anche denaro (in diversi ecovillaggi le entrate dei membri vengono collettivizzate, in parte o in toto).

In una parola, parliamo di un livello di convivenza che a molti può risultare impegnativo; difficilmente negli ecovillaggi individui, coppie o nuclei famigliari dispongono di un appartamento, il più delle volte l’esperienza di vita comune prende corpo in casali di campagna, in cui gli spazi privati si limitano ad una stanza ma non mancano casi in cui si costruiscono piccole case in bioedilizia, su appezzamenti di terreno o si recuperano insieme piccoli borghi abbandonati, come si è fatto a Torri Superiore, poco distante da Ventimiglia o a Upacchi, in provincia di Arezzo.

Né siamo più agli albori degli anni Settanta, quando esplose il fenomeno delle comuni —soprattutto di matrice hippy e libertaria — che venivano improvvisate spesso occupando luoghi abbandonati e venivano vissute in maniera spontaneista, senza preoccuparsi troppo che l’esperienza potesse, anche repentinamente, finire. Un esempio che ha mantenuto una sua attualità, in qualche modo erede di quella stagione, è quello del Popolo degli Elfi, una realtà che coinvolge oltre duecento persone e si è sviluppata a partire dall’occupazione — alla fine degli anni Settanta — di un borgo diroccato sull’Appennino tosco-emiliano, presto ribattezzato Gran Burrone cui ha fatto seguito l’occupazione, nelle vicinanze, di altri piccoli borghi e stabili in stato di più o meno grave abbandono.

Oggi, tuttavia, se si vuole andare a vivere insieme, in campagna, non si può quasi più ricorrere alle occupazioni, essendo piuttosto necessaria una mentalità micro-imprenditoriale, come insegna Diana Leafe Christian nel suo Creare una vita insieme.

In questo senso un po’ più strutturata rispetto all’esperienza degli ecovillaggi — e spesse volte meno “rurale” — è quella del cohousing: edifici (a volte costruiti da zero) in cui, generalmente parlando, accanto ad appartamenti privati esistono spazi da gestire insieme: lavanderie, ludoteche, biblioteche, co-working, eccetera.

Tanto quella degli ecovillaggi quanto quella del cohousing sono esperienze ancora piuttosto circoscritte anche se non molto distanti dal poter, un giorno, essere considerate “trendy”.

Resta il fatto che, oggi, in molti hanno il rifiuto della città e vorrebbero fare una scelta di vita comunitaria in campagna ma in pochi riescono effettivamente a farla anche perché una delle prime questioni che si pone (e che a mio modo di vedere molti, un po’ semplicisticamente, sottovalutano) è quella della produzione di reddito, rispetto alla quale si è maggiormente agevolati vivendo in città; non a caso, come si accennava, il mondo meno sviluppato ha alti o altissimi tassi di inurbamento.

È anche vero, del resto, che come esistono oggi i nomadi digitali — che possono cioè lavorare da qualunque parte del mondo perché necessitano, fondamentalmente, solo di una connessione internet — si potrebbe iniziare anche a parlare di comunitari digitali, nel momento in cui uno dei modi di produrre reddito per chi vive in un ecovillaggio potrebbe essere quello di lavorare, dalla comunità, on line.

Esiste poi la vocazione prima degli ecovillaggi: la produzione di cibo biologico da distribuire nelle reti di economia solidale, attraverso i gruppi d’acquisto, mercati e mercatini che può, tra le altre cose, beneficiare del potenziamento di movimenti interessanti come Genuino Clandestino.

Esistono, al contempo, nuove figure professionali come i facilitatori o gli esperti di permacultura e bioedilizia che possono trovare impiego in reti di ecovillaggi (a livello internazionale esiste il Global Ecovillage Network che ha un piccolo equivalente nazionale nella Rete Italiana Villaggi Ecologici).

Dunque un movimento, pur discreto, quasi defilato, di ritorno alla terra, da abitare poeticamente insieme, si sta oggi comprensibilmente rafforzando.

Tuttavia, in questo breve scritto, mi vorrei soffermare su una possibilità in più: il recupero abitativo dei moltissimi borghi in buona parte relativamente spopolati di cui è ricco il nostro paese. Io, quando sono in Italia, vivo nel Lazio, in un comune del viterbese. Alcune aree del centro storico sono, oramai, poco abitate e questo borgo non fa particolarmente eccezione. È comune trovare bellissimi borghi, nel viterbese, con molte case in vendita a prezzi davvero convenienti, per non parlare della confinante Sabina, in provincia di Rieti, dove molti paesi hanno appena un centinaio di abitanti.

Se poi ci si sposta in Abruzzo ed in Molise si possono trovare occasioni ancora più appetibili e, facendo un passo ulteriore, merita menzione la pur ancora sperimentale iniziativa, di alcuni comuni italiani, di vendita di case ad un euro.

Dunque, volendo, si può lasciare la città e trasferirsi in campagna o in un piccolo centro dove vivere una vita a misura d’uomo anche senza abbracciare la scelta dell’ecovillaggio che, come si accennava, è oggi più impegnativa di quanto non lo fosse quella delle comuni spontaneiste.

La scelta di trasferirsi in un borgo è invece maggiormente individuale o famigliare (dunque più “classica”), non prevede la comproprietà o le problematiche che sorgono nel momento in cui, in un ecovillaggio, convivano il proprietario o i proprietari del fondo e degli immobili ed i membri non proprietari.

In un borgo ciascuno può comprare o affittare una casa, a prezzi spesso notevolmente accessibili, però il progetto di trasferimento può essere fatto insieme ad altre persone che ugualmente andrebbero ad affittare o comprare case ed eventualmente anche terreni nelle vicinanze.

Dunque si tratterebbe ancora di una scelta, pur traslatamente, comunitaria ma che poi si sostanzierebbe in più fluidi rapporti di vicinato e, auspicabilmente, di mutuo appoggio di kropotkiniana memoria.

Gruppi di cittadini potrebbero dunque trasferirsi in piccoli paesi e borghi in parte abbandonati e lì sviluppare dei progetti professionali assieme o sostenersi vicendevolmente nelle rispettive attività.

Naturalmente a questi gruppi nessuno impedirebbe di frequentare eventuali, vicini ecovillaggi, supportandone le attività, acquistandone i prodotti, eccetera.

Lo scenario che si sta delineando è dunque plurale; riabitare poeticamente la terra può svilupparsi attraverso varie formule, tutte più o meno comunitarie.

È un fenomeno che naturalmente può crescere in maniera, ripeto, discreta ma anche, nel tempo, progressivamente esponenziale perché, all’aumentare del numero di persone che ripopolano le campagne e i borghi, molte altre possono sentirsi più motivate a valutare una scelta di questo genere.

Sicuramente rispetto alle città si abbatterebbero i costi abitativi e, a fronte della possibile produzione di un reddito pur modesto (proporzionale a bisogni economici meno stringenti di coloro che vivono in città come Roma, Milano o Londra), può diventare un’esperienza praticabile anche da persone comuni, che non debbano esser pronte, ad esempio, a condividere proprietà, economia (pur a livelli, di volta in volta, diversi) e spazio vitale (fermo restando che per alcuni la scelta “più rigorosamente” comunitaria sia la più profonda e meritevole di essere vissuta).

Non credo dunque sia così utopico, per un numero crescente di persone, poter vivere poeticamente la terra e, concludendo con uno slogan, relativo in particolare ai tanti possibili borghi ripopolabili: il paradiso terrestre esiste già, va solo riabitato!

 

Per approfondire il fenomeno comunitario

Quindici anni di studi — in biblioteca e sul campo — sul vivere insieme.
Il quarto di una fortunata serie di testi sull’universo comunitario, ogni giorno più multiforme. Un excursus che, dalle prime comunità essene, giunge alle contemporanee esperienze di cohousing tentando di non trascurare nessuno: esponenti radicali della riforma protestante, socialisti utopisti, anarchici, hippies, kibbutzniks, ecologisti più o meno profondi, new-agers, cristiani eterodossi, musulmani pacifisti e altro ancora.
Una mappatura ragionata — su scala italiana, europea e mondiale — di gruppi di persone che abbiano deciso di condividere, in vario modo, princìpi, ambienti, beni di vario genere e denaro, di comunità sperimentali — spesso ecologiste — dove si sondino le suggestive sfide di uno spazio vitale comune.

Manuel Olivares, sociologo di formazione, vive e lavora tra Londra e l’Asia.
Esordisce nel mondo editoriale, nel 2002, con il saggio Vegetariani come, dove, perchè (Malatempora Ed). Negli anni successivi pubblicherà: Comuni, comunità ed ecovillaggi in Italia (2003) e Comuni, comunità, ecovillaggi in Italia, in Europa, nel mondo (2007).
Nel 2010 fonda l’editrice Viverealtrimenti, per esordire con Un giardino dell’Eden, il suo primo testo di fiction e Comuni, comunità, ecovillaggi.
Seguiranno altre pubblicazioni, in italiano e in inglese, l’ultima e di successo è: Gesù in India?, sui possibili anni indiani di Gesù.

 

Leggine l’introduzione

 

Prezzo di copertina: 16.5 euro

 

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