Ancora su marabuttismo e suoi “dintorni”

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Ancora su marabuttismo e suoi “dintorni”

Di seguito il sesto articolo del nostro collaboratore Silvio Marconi, per la serie: eterodossie, eresie o, semplicemente sincretismi nell’Islam”.

Il primo riporta il titolo della serie. Per leggerlo cliccare qui!

Leggi il secondo articolo: Aicha e il Sufismo.

Leggi il terso articolo: Islam, confraternite, esoterismo e dintorni.

Leggi il quarto articolo: Drusi e dintorni.

Leggi il quinto articolo: Islam e marabuttismo.

 

Marabuttismo e possessione

Una dimensione che conferma il carattere polisincretico del “marabuttismo” islamico è quella della possessione, a cui si associa spesso un ruolo preminente della donna, in un intreccio che già di per sé rimanda alle radici proto berbere, a quelle africane sub sahariane ed anche a quelle fenicio-puniche delle principali sorgenti di polisincretismi dei fenomeni marabuttici. Il rapporto fra riti di possessione e “marabuttismo” e tra riti di possessione maschili e femminile è esso stesso assai articolato, a riprova di processi determinatisi storicamente in aree culturali e condizioni sociopolitiche “al contorno” ed in epoche storiche differenti. In Tunisia, ad esempio, la studiosa Traki Zannad (Zannad T., Symboliques corporelles et espaces musulmans; CERES, Tunis, 1984), ma anche altri, fra cui George Lapassade (Lapassade G., Stati modificati e transe; Sensibili alle foglie, Roma, 1993) hanno analizzato i rituali di possessione femminile detti hadra, che pur realizzandosi sempre in collegamento con la visita dei santuari marabuttici (zaouia) sia rurali che urbani, sono autonomi dai riti maschili e in qualche modo si contrappongono ad essi posto che quelli maschili sono di tipo estatico, ossia prevedono visioni mistiche, mentre quelli femminili sono di tipo possessivo, ossia prevedono l’”impossessamento” delle adepte da parte di entità esterne. Oltre tutto, mentre le visite maschili ai santuari marabuttici e l’espletamento eventuale di riti estatici avviene di venerdì, il giorno  privilegiato della sacralizzazione della settimana nell’Islam, quelle femminili avvengono in giorni differenti, ad esempio il giovedì nel caso descritto da Lapassade della zaouia di Sidi Bel Hassen a Tunisi.

Durante queste visite femminili si dà vita ad un gruppo musicale tutto femminile e guidato da una donna anziana, che usa solo strumenti percussivi per accompagnare un canto antifonale, ossia in cui una donna (l’anziana) lancia il canto e il gruppo risponde, secondo una tecnica che ritroviamo in molte culture dell’Africa sub sahariana in rapporto proprio con i rituali possessivi e che è del resto alla radice dello stesso teatro greco. Le altre donne, sedute in cerchio attorno al gruppo musicale, iniziano a far dondolare la testa finché alcune entrano in trance, si alzano e si danno a movimenti assai bruschi del capo, dei capelli, del corpo, impersonificando i marabut locali da cui vengono possedute, in forme che ricordano quelle delle “tarantate”; le altre donne fanno delle offerte in denaro a colei che è entrata in trance e le pongono delle domande a cui essa risponde (sempre posseduta dal marabut): il rito termina con il crollo della/delle donna/e posseduta/e e la perdita di conoscenza.

A differenza che nel caso, ad esempio, dei sincretismi afrobrasiliani ed afrocubani fra sistemi possessivi africani sub sahariani (prevalentemente ma non solo di origine Yoruba) e sistemi cattolici, dove i riti possesivi si svolgono in spazi del tutto distinti da quelli delle chiese cattoliche (“case-tempio”), nel caso del “marabuttismo” questi riti possessivi femminili si svolgono in spazi istituzionalizzati e sacralizzati come islamici e questo conferma che il carattere polisincretico del “marabuttismo” rappresenta una porta attraverso la quale entrano nell’Islam stesso elementi pre-islamici o a-islamici, ma che non vengono rifiutati da quelle forme di Islam che non sono irrigidite nel settarismo caro al Wahhabismo, al Talebanismo, ecc. . E’ proprio la Zannad, del resto, che sottolinea come il ruolo del marabut in ogni comunità (villaggio, quartiere, gruppo di operatori di un mercato, ecc.) del Maghreb islamizzato sia quello che nell’Africa sub sahariana svolge l’antenato mitico e possiamo notare come questo venga in parte occultato dagli studiosi occidentali, più consoni ad apparentare il “marabuttismo” al culto dei santi cristiani nel senso di far derivare da contaminazioni cristiane quella particolare concezione interna alla galassia islamica. In realtà, sarebbe piuttosto da considerare come esista un substrato polisincretico comune sia alla dimensione islamica, sia a quella proto cristiana nel Nordafrica e nelle aree mediterranee sud-europee, substrato da riferire alle culture paleo-berbere  influenzate da quelle sub sahariane, a diretti apporti delle culture sub sahariane ed anche ad influssi punico-fenici, tutte realtà esse stesse polisincretiche e come esista anche un fecondo influsso proprio del “marabutismo” e di quanto esso veicola (ad esempio in termini di culti estatici e possessivi e di concezioni della “protezione territorializzata”) su tante pratiche popolari cristiane o in ambito cristiano.

 

I riti maschili

I riti maschili nelle zaouia, come si è detto, sono invece di altro tipo, essenzialmente estatico.

Si arriva ad estremi come quello del rito (oggi scomparso)che si svolgeva nella zaouia di Sidi Zitouni e Sidi Amens a Djerba, isola tunisina dalla ricca storia etnografica, prima che l’ondata di laicizzazione bourghibiana la trasformasse in un museo; qui il rito di trance, maschile, era contemporaneamente estatico e sciamanico, avvenendo in rapporto con una parte dell’edificio detta quubet el khyal (“cupola dei fantasmi”) sotto la quale, dopo aver passato la notte a salmodiare il Corano ignorando ogni tipo di apparizione appunto fantasmatica,  era possibile instaurare un rapporto descritto come “fidanzamento” con una jinna, un’entità femminile che avrebbe portato l’individuo di sesso maschile, all’alba, a visitare il suo regno sotterraneo, ove gli avrebbe offerto il matrimonio, da cui sarebbero nati figli invisibili (come lei) ai comuni mortali.

Si può quindi affermare che le zaouia marabuttiche rappresentano i nodi di una vasta rete territoriale e culturale che copre l’intero Maghreb, che travalica il Sahara e che, al tempo stesso, proietta i suoi effetti anche nella Penisola Iberica, in Sardegna (rito dell’Argia), in Sicilia, in Salento (elementi del Tarantismo) ed altrove nel Mediterraneo centro-occidentale, anche perché il “marabuttismo” è presente durante tutta l’espansione islamica che proprio dal Maghreb e con un ruolo determinante dei suoi abitanti (di matrice berbera) si sviluppa nei secoli VIII-X verso la Penisola Iberica e le Baleari e poi verso la Sicilia e che influenza in modo diverso la Sardegna, l’intero Sud d’Italia, l’Occitania ed altre regioni europee. Si può dire anzi che nel Maghreb il “marabuttismo” raggiunge la sua fase di massimo splendore con la dinastia Hafside (XIII secolo) ed è in questa fase che gli strumenti a percussione usati nei culti marabuttici si diffondono anche nella Penisola Iberica e in Italia, portando alla fioritura di quegli strumenti che sono restati nel folclore salentino e campano, sardo ed andaluso, alentejano e siciliano, ecc.

Una nuova fase di fioritura dei culti marabuttici si ha nei secoli successivi, soprattutto dal XVIII al XIX, ma non va confusa, come amano fare molti studiosi occidentali per rimuoverne il ruolo nella conformazione di concezioni e pratiche rituali medievali e tardo medievali europee, questa fase con una “nascita” del “marabuttismo” che, come si è detto, rimonta ad oltre mille anni prima; in questa fase, tali riti si diffondono durante l’espansione islamica (particolarmente di matrice marocchina) anche nelle aree sub sahariane ad esempio senegalesi, dove entrano in rapporto con la cultura Wolof e danno origine ad ulteriori processi sincretici.

 

Uno specifico ruolo dei neri nel marabutismo

Va però notato che uno specifico ruolo dei neri nel “marabuttismo”  è presente e rilevante ben da prima di questa fase di nuova correlazione Islam-Africa Subsahariana, centrandosi in particolare in quelli che vengono chiamati “riti bilaliani” perché hanno come asse simbolico referenziale la figura di Bilal, lo schiavo nero che fu il secondo convertito dal Profeta Mohammed all’Islam, essendo la prima la moglie dell’epoca dello stesso Profeta Mohammed, Khadija. Rapporti coi sistemi concettuali e con le pratiche dei “riti bilaliani” hanno fenomeni fra loro diversi per epoca di apparizione e per caratteristiche come i culti terapeutici ndop dei Wolof senegalesi o lo stambali tunisino, ma gli stessi “riti bilaliani” hanno forme diverse fra loro che coprono un’area che va dall’Algeria al Marocco. Essi hanno in comune il fatto che le confraternite che li praticano fanno miticamente ascendere tutte la loro origine appunto da Bilal, che dopo essersi convertito all’Islam non solo venne liberato dalla sua condizione schiavile ma divenne il primo muezzin della storia dell’Islam. A questa parte della vicenda, nota a tutti i musulmani ed accettata da tutti, si aggiunge nella dimensione “bilaliana” la leggenda di una capacità taumaturgica di Bilal, che tra l’altro viene reputato colui che avrebbe guarito una figlia del Profeta Mohammed dalla “melanconia”, attraverso un rito terapeutico con l’uso di nacchere e percussioni; è questa pratica terapeutica che, secondo le confraternite bilaliane, si può ripetere ed in effetti si ripete durante le loro pratiche rituali che non  avvengono, é bene precisarlo, all’interno dei santuari marabuttici ma “a domicilio”, e che quindi sembra non entrare a far parte del “marabuttismo”; in effetti, però, solo la terapia è “domiciliare”, mentre tutte le altre cerimonie e pratiche rituali e l’organizzazione stessa delle confraternite bilaliane avvengono all’interno dei santuari marabuttici. Va anche precisato che la pratica terapeutica, che assume caratteristiche di rito di trance possessiva, non viene realizzata in riferimento a qualsiasi tipo di malattia, ma solo verso quelle che sono attribuite all’azione di un jinn che è stato in qualche modo offeso e che in essa hanno ruolo sia donne (che realizzano la fase di tipo “diagnostico” in forma rituale), sia uomini (in particolare necessariamente neri, che realizzano la fase musicale di quella terapeutica e di induzione alla transe, di cui però è protagonista la donna, arifa, che ha realizzato la diagnosi), in un mescolarsi di elementi di grande complessità.

I culti e le forme rituali che si pongono nell’ampia fascia di confine fra il “marabuttismo” e la ritualità possessiva non-islamica, avendo in comune il substrato polisincretico di origine subsahariana, sono molteplici e differenti fra loro: ne fanno parte quelli (nati questi sì solo nel XVIII secolo) della confraternita marocchina Hamdacha, fondata da un certo Ali Ben Hamdouch, che era un sidi, ossia ancora una volta una figura eminente secondo la logica del “marabuttismo”, che sviluppa pratiche terapeutiche (sempre riferite a malattie provocate dall’azione di un jinn) basate su culti estatici e non possessivi; tali pratiche hanno una forte impronta sufica, a riprova del fatto che “marabuttismo” e Sufismo, lungi dall’essere sistemi separati e perfino contrapposti, si integrano invece spesso, dando così vita a realtà il cui polisincretismo arriva, quindi, a comprendere assieme elementi di matrice sub sahariana, elementi proto berberi, elementi mediorientali ed elementi indoiranici, il tutto dentro un contenitore islamico a sua volta non passivo ma attivo e capace di interagire con tali elementi.

Proprio a tali culti, però, si aggiunge e si associa una fase possessiva, detta hadra degli ghnaoua che intende riprendere elementi tratti da un sistema cultuale, quello gnaoua (scritto senza h), appunto, che è altra realtà a se stante e di forte carattere afro-subsahariano, ben diffusa in Marocco, le cui entità vengono “invitate” nella hadra  a partecipare ad una sorta di festa della confraternita Hamdacha, per stringere con loro un patto di protezione degli adepti. Va notato a questo punto che due concezioni “protettive” si intrecciano nei due livelli di pratica: l’una è quella sufica, centrata sulla catena di relazioni (di matrice indoiranica e presente anche nelle culture estremo-orientali) “maestro-adepti” e sul fluire dei benefici attraverso quella catena grazie allo strumento della crescita iniziatica guidata, più omogenea con le concezioni stesse del “marabuttismo”, secondo le quali la protezione deriva dall’azione di un marabut che ha ricevuto il suo potere da Allah e che lo esercita anche, anzi soprattutto, da morto, irradiandola dalla sua tomba ma con il necessario intervento rituale della sua confraternita e di operatori di essa organizzati essi stessi in una catena iniziatica. L’altra è quella che correla, sempre attraverso mediatori rituali, l’individuo, la comunità a figure che possono essere considerate antenati mitici, attraverso pratiche possessive e che riprende in forma meno mediata le concezioni della cosiddetta Africa Nera. Il punto di giunzione sta nel ruolo degli operatori e nel carattere iniziatico della loro sapienzialità, che risulta presente sia nella concezione sufica, sia in quella marabuttica, sia in quella più effettivamente sub sahariana; un ruolo ed un carattere del tutto diverso da quello sia degli operatori “normali” cristiani (i sacerdoti), sia degli operatori cristiani “speciali” (gli esorcisti). In ambito cristiano cattolico (ed in altre forme in quello della Chiesa Ortodossa), infatti, esiste innanzi tutto una “ortodossia” stabilita dall’alto della piramide gerarchica, che sebbene non riesca affatto ad eliminare le “contaminazioni altre” soprattutto nelle forme di religiosità popolare (basti pensare a tanti culti come quello dei serpari o del tarantismo meridionali….), riesce a bandire (come nel caso del Catarismo) o normalizzare (come nel caso del Francescanesimo) gli elementi “altri” quando essi si danno una organizzazione autonoma; inoltre gli operatori rituali, dopo i primi secoli di “democrazia dal basso” nella Chiesa, non rispondono affatto alle comunità ma alla gerarchia ed inoltre non sono affatto protagonisti di pratiche rituali basate sulla possessione, anzi, nel caso dell’esorcista, le combattono.

 

Conclusioni

Diverso potrebbe sembrare il caso delle pratiche estatiche, in effetti diffuse nei diversi secoli in ambito cattolico, sebbene molto ci sarebbe da dire sul fatto che esse stesse sono più esempio di resistenza polisincretica contaminante che di concezioni eminentemente cattoliche, ma la cos sostanziale è che tali pratiche non vengono considerate come fondanti una struttura separata ed autonoma da quella della Chiesa, come invece avviene in ambito islamico (dove una vera “Chiesa” non esiste, specie in ambito sunnita), dove i santuari marabuttici sono cosa altra dalle moschee sebbene spesso si associno le due realtà.

Certo, le pratiche terapeutiche ad esempio di Lourdes sono collegate ad episodi del passato di “apparizione”, ma non esistono in quel caso operatori/operatrici rituali-terapeutici che medino tra i fedeli nell’attualità e la figura della Vergine che spanderebbe i suoi benefici effetti su di loro e la pratica stessa si riduce alla preghiera che non è certo equivalente di riti estatici e meno che mai possessivi; al tempo stesso, le pratiche devozionali collegate al ruolo taumaturgico, da vivo e da morto, di un Padre Pio (peraltro lungamente avversato dalle gerarchie cattoliche) a cui è attribuita una dimensione che si potrebbe definire in qualche modo “estatica”, hanno elementi riconducibili alla configurazione di matrice africana di un  “antenato mitico” ed a quella dei culti marabuttici e dei pellegrinaggi alla tomba, ma non implicano pratiche estatico-possessive tra i fedeli attuali.

Dunque, il rapporto fra pratiche rituali/religiosità popolare in ambito cattolico, pur avendo elementi in comune con quelli in ambito islamico ed avendoli anche e soprattutto proprio a causa delle caratteristiche e delle origini dei polisincretismi nei due ambiti, non porta agli stessi risultati che si trovano nel mondo musulmano per una serie di ragioni che vanno dalla strutturazione diversa del rapporto tra fedele e Dio nei due universi religiosi a fattori storici rilevanti attinenti le correlazioni delle società impregnate da quegli universi fra loro e con realtà africane ed asiatiche differenti.

 

I libri di Silvio Marconi

 

Uno studio che, lungi dall’avere un obiettivo “enciclopedico” o di minuziosa analisi storica, vuole evidenziare quelle connessioni e correlazioni – tradizionalmente taciute e rimosse – tra i fenomeni ed i processi che portarono alla crisi ed al crollo dell’Impero Romano d’Occidente e quelli operanti in un’Asia la cui complessa storia viene, tuttora, sottovalutata.
Quando una farfalla batte le ali in Cina si sofferma sul ruolo che, nella crisi e nel crollo dell’Impero Romano d’Occidente, ebbero tanto la Persia quanto, indirettamente, la Cina, dimostrando come il pregiudizio etnocentrico che ancora permea la formazione, la divulgazione e la costruzione dell’immaginario occidentale sia un pernicioso ostacolo a una comprensione di ben più ampio respiro e alla lezione metodologica che ne se ne può trarre.
In questa prospettiva, il riconoscimento di una molteplicità di poli e fattori transculturali è la precondizione per affrontare qualsiasi problematica: storica, politica, economica o strategica.
Una precondizione troppo spesso, volutamente, ignorata da una cultura occidentale che, a differenza di quelle orientali, ha rifiutato la logica olistica privilegiando un approccio molto settoriale.

 

Silvio Marconi – ingegnere, antropologo, operatore di Cooperazione allo sviluppo, Educazione allo Sviluppo e Intercultura – fa ricerca, da anni, nell’ambito dell’antropologia storica e dei sincretismi culturali. Ha pubblicato, al riguardo: Congo Lucumì (EuRoma, Roma, 1996), Parole e versi tra zagare e rais (ArciSicilia, Palermo, 1997), Il Giardino Paradiso (I Versanti, Roma, 2000), Banditi e banditori (Manni, Lecce, 2000), Fichi e frutti del sicomoro (Edizioni Croce, Roma, 2001), Reti Mediterranee (Gamberetti, Roma, 2002), Dietro la tammurriata nera (Aramiré, Lecce, 2003), Il nemico che non c’è (Dell’Albero/COME, Milano, 2006), Francesco sufi (Edizioni Croce, Roma, 2008), Donbass. I neri fili della memoria rimossa (Edizioni Croce, Roma, 2016).

Prezzo di copertina: 18 euro Prezzo effettivo: 15.5 euro