Benares “città di luce”

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Benares “città di luce”

Di seguito il terzo capitolo del testo Yoga dall’autentica tradizione indiana, inizialmente pubblicato in inglese con il titolo Yoga based on authentic Indian traditions. Nel precedente post abbiamo presentato lo stesso capitolo in lingua inglese, intitolato Benares “city of light”.

Buona lettura!

 

Are there not many holy places on this earth?
Yet which of them would equal in the balance one speck
of Kāshī’s dust?
Are there not many rivers running to the sea?
Yet which of them is like the River of Heaven in Kāshī?
Are there not many fields of liberation on earth?
Yet not one equals the smallest part of the city never forsaken by
Shiva.
The Ganges, Shiva and Kāshī: Where this Trinity is watchful,
no wonder here is found the grace that leads one on
to perfect bliss.

(KKh 35. 7-10)[1]

 

Dalla fine del 2005 all’inizio del 2012 ho vissuto buona parte del mio tempo a Benares, nell’India del Nord, grossomodo a metà strada tra Delhi e Calcutta.

Ho avuto dunque l’opportunità di sviluppare alcune idee riguardo questa città. In uno dei miei precedenti testi (Un Giardino dell’Eden, Viverealtrimenti Editrice) l’ho definita «santa e malsana».

Parliamo, difatti, di una dimensione alquanto controversa, molto tradizionale ed ortodossa ed ancora molto indietro dal punto di vista materiale (anche se dovrebbe svilupparsi abbastanza in fretta, come l’intero subcontinente). È, tuttavia, ricchissima di storia (viene comunemente considerate la città vivente più antica del mondo) e cultura, soprattutto religiosa (nei suoi distretti principali ci sono approssimativamente 1500 templi hindu e 300 moschee), musica e poesia.

Si può facilmente definire una città di grande intensità per quanto non è raro venga denigrata per alcuni suoi aspetti “oscuri”.

Benares — o Varanasi o Kāshī — è stata, sin da tempi molto antichi, in vario modo, collegata alla morte. Di più: è la città della buona morte, il miglior posto sulla terra, per un hindu, per lasciare il contingente piano di realtà.

Di conseguenza, ha sempre attratto molti pellegrini malati ed è il posto, in India, dove è più comune incontrare la morte “in pubblico”. I due principali ghats crematori ed altri spazi di cremazione sono sempre molto attivi e relativamente affollati in quanto molte persone si fermano ad assistere ai riti funebri meditando sulla temporaneità della vita.

Molto tempo e molte energie vengono spese, a Benares, per le pratiche religiose, per le puje (celebrazioni di offerta alle divinità), i festivals religiosi, eccetera.

Molto di quanto attiene la “sfera pratica” viene invece trascurato, ragion per cui Benares può essere considerato un posto tanto affascinante quanto scomodo.

Uno dei migliori libri su Benares è Banaras city of light, di Diana Eck.  

L’autrice presenta i migliori aspetti della città nel brano riportato di seguito:

«Banāras è una città magnifica che si sviluppa sulla riva occidentale del fiume Gange, dove il fiume curva a mezzalu-na verso nord. Poche cose al mondo possono essere comparabili allo splendore di Banāras, vista dalle acque del fiume, all’alba. I raggi del sole mattutino incendiano il Gange e le facciate di questa città che gli hindu chiamano Kāshi: la Luminosa, la Città di luce[2]. Templi e santuari, ashrams e padiglioni che si sviluppano lungo il fiume per oltre tre miglia appaiono dorati, il mattino presto.

Si stagliano maestosi sui camminamenti sulle rive, proiettando suggestivi riflessi nelle acque. I camminamenti, chia-mati ghāts, scendendo come radici urbane nel fiume, ospitano migliaia di devoti che si bagnano all’alba. Negli stretti vicoli, appena più su, si sviluppa l’incessante dramma terreno della vita e della morte che gli hindu chiamano samsāra. Tuttavia, dalla prospettiva del fiume, si può assistere ad uno spettacolo di trascendenza e liberazione che gli hindu chiamano moksha»[3].

La struttura urbana di Benares è particolarmente compatta mentre i suoi luoghi più vissuti sono, come scrive Diana Eck, i ghāts, «letteralmente approdi o banchi»[4] .

A Benares, sui ghāts sul Gange, i riverberi della storia e della tradizione sono evidenti ed è questa una delle ragioni principali del suo fascino.

Non sono pochi gli stranieri letteralmente stregati da Benares e che dunque trascorrono periodi più o meno lunghi in città, imparando a suonare strumenti come il sitar o la tabla, praticando yoga, studiando l’hindi o il sanscrito, facendo del volontariato o tentando di approfondire teorie e pratiche tantriche, esoteriche.

Talora diventano fanatici di Benares laddove, per molte altre persone, si rivela un posto di insostenibile difficoltà.

La sua forza e la sua intensità, infatti, possono anche avere un effetto indesiderato e non è raro che molte persone soffrano per gli altissimi livelli di inquinamento acustico nelle strade (dove ciascuno, alla guida di qualsivoglia veicolo, suona in continuazione), l’invasività, spesse volte intollerabile, di molti locali, le infinite espressioni di inefficienza (gli approvvigionamenti di corrente elettrica, ad esempio, sono ancora piuttosto precari), le drammatiche condizioni sanitarie, eccetera.

Tuttavia, credo non sia azzardato affermare che, malgrado non sia una città per tutti (non credo possano esserci dubbi al riguardo), una visita, breve o lunga (relativamente alla natura del visitatore), possa essere un’esperienza memorabile.

 

 

Una breve storia di Benares

 

I primi secoli

 

Tanto dalle fonti scritte quanto dagli scavi archeologici realizzati nell’area nord della città (non distante dall’attuale Rajghat) è evidente che questa sia stato un importante insediamento commerciale, successivamente evoluto in luogo sacro.

Gli archeologi hanno fatto risalire le prime vestigia approssimativamente all’ottavo secolo avanti Cristo.

Alcune caratteristiche geografiche sono state alla base della prosperità commerciale di Benares.

Gli argini del fiume, sul pianoro di Rajghat, erano alti, stabili e ad ottima tenuta per i rischi di alluvione nel corso della stagione monsonica. Anche l’ubicazione era strategica, alla convergenza del Gange e del fiume Varana (o Varanasi), uno dei suoi affluenti.

«Un primo riscontro scritto, che conferma quanto si può dedurre dai ritrovamenti archeologici, è offerto dal Mahā-bhāsya[5] di Patanjali [riconducibile al secondo secolo a.C], in cui ritroviamo frasi del tipo: “i mercanti servono e venerano Varanasi, chiamandola Jivatrī”.

Il Mahābhārata colloca a Varanasi la casa del noto mercante […] Tulādhāra»[6].

Le buone condizioni di vita attirano presto l’ordine buddhista che si stanzia nei dintorni di Sarnath (dove Buddha fece il suo primo sermone, conosciuto come Dhammacakkap-pavattana Sutta ― “il discorso per muovere la ruota del Dharma” ― nel parco delle gazzelle).

  Nel Dictionary of Pāli proper names c’è una descrizione della città:

«Benares era un importanate centro commerciale ed industriale. C’era un costante scambio commerciale con Sāvat-thi [Śravasti] e con Takkasilā [Taxila]…anche ai tempi di Buddha Benares era particolarmente prospera ed era in-clusa nella lista delle grandi città suggerite da Ānanda come possibile posto per il Parinibbāna[7] di Buddha»[8].

Sigilli antichi di 1700-2000 anni, ritrovati negli scavi di Rajghat, rivelano che l’esistenza della religione hindu nella città può essere fatta risalire alla fine del terzo secolo della nostra era.

Credo meriti menzionare che, in riferimento al precedente periodo, molti sigilli indo-romani venuti alla luce «riportano immagini di divinità che sono state identificate con Nike (che personificava, nella mitologia greca, la vittoria), Atena, Ercole ed Apollo, facendo seriamente ipotizzare commerci di lunghe tratte»[9].

Successivamente hanno iniziato a fare la loro comparsa emblemi shivaiti, «uno riporta il toro ed il tridente oltre alla leggenda di sahasya»[10] (Saha è uno dei nomi di Shiva), un altro «un linga [fallo] su di un piedistallo fiancheggiato da un triśūla-paraśū [tridente] a sinistra ed un vajra [fulmine] alla propria destra»[11].

Monete d’oro del periodo Gupta sono una testimonianza che Varanasi  era inclusa nell’omonimo impero (dominante in India tra l’inizio del terzo secolo e l’inizio del quinto secolo d.C.), nella cui fase imperiale iniziò ad affermarsi come luogo sacro.

Nel tempo, un numero crescente di sigilli reca rappresentazioni di rosari, piccoli vasi sferici o serpenti, talora associate ad una divinità antropomorfa o, più spesso, a nomi di dèi. Il rosario simboleggia, tradizionalmente, la rinuncia, il serpente la morte ed il rinnovamento ed il piccolo vaso sferico «può essere considerato l’equivalente del kalaśa, il contenitore dell’elisir dell’immortalità (amrta), già presente in antichissime immagini shivaite»[12].

Questo complesso di simboli può facilmente invitare a pensare al culto di una divinità (che prende diversi nomi su diversi sigilli: Yogeśvara, Bhrngeśvara e Devadevasvāmin) per ottenere l’immortalità.

In generale, la predominanza di motivi shivaiti, nell’antica Benars (caratteristica che la città non ha perso in tempi recenti), ha inaugurato una sua forte vicinanza con la divinità rappresentata. La città difatti, nel tempo, non ha mancato di attrarre anche molti devoti di Vishnu ma è sempre rimasta, fondamentalmente, la “città di Shiva”.

In un mito shaiva, infatti, Shiva ha creato Kāshī, al principio dei tempi, per avere della terra sotto ai suoi piedi.

 

 

Le fonti scritte

 

La più antica descrizione puranica di Benares è lo Skanda Purāna, «probabilmente composto nel sesto o, forse, nella prima metà del settimo secolo»[13].

La letteratura puranica contempla 18  Purāna maggiori (Maha Purāna) ed altrettanti minori (Upa Purāna).

Sono trattati religiosi, ricchi di elementi storici e mitologici (per quanto la storia sfumi spesso nel mito, in India), in cui vengono presentate le più importanti divinità del pantheon hindu (o avatara, incarnazioni di alcune di esse) oltre a molti rituali, festività, pellegrinaggi, eccetera.

I Purāna, come gli Itihāsa (“storie del passato”, i più importanti dei quali sono due imponenti opere epiche: il Mahābhārata ed il Rāmāyana) e gli aforismi (sūtra) ― seguiti da diversi śastra, testi autorevoli relativi al dharma (Dharmaśastra e Mānavadharmaśāstra) ed alla sfera della ricchezza e del potere (Arthaśāstra) ― appartengono alla smriti: “tradizione” o, usando la traduzione letterale, “memoria”. La smriti, nella filosofia indiana, segue la śruti (rivelazione), peculiare dello stadio vedico, per mantenerne vivi gli influssi nella società e per chiarirne i significati profondi.

Lo Skanda Purāna è il maggiore dei Maha Purāna ed ampio spazio vi trova la figura di Kartikeya (chiamato anche Skanda o Murugan), un figlio di Shiva e Parvati.

Lo Skanda Purāna è molto ricco di leggende su Shiva ed i posti santi ad esso legati. Il Kāshī Khanda è una delle sue sezioni e tratta della tradizione shivaita a Varanasi.

Troviamo sezioni riguardanti la città anche nel Matsya Purāna, nel Brahma Purāna e Linga Purāna.

Questi diversi Purāna coprono un ampio periodo (tra il 500 ed il 1100 d.C.).

«Il Māhātmya nello Skandapurana descrive un tipo di sacralità che può essere facilmente ricondotta al periodo Gupta. [La divinità] Avimukteśvara ha un ruolo centrale. Attorno ad essa ci sono 12 lingas di minore importanza, nessuno dei quali è stato ritrovato su alcun sigillo. La città viene descritta sia come un luogo di ritrovo di yogi, in par-ticolare di matrice pāśupata, sia come un posto dove si vorrebbe morire, in virtù delle promesse di immediata liberazione. Il testo accredita la presenza di una comunità di asceti pāśupata e di ācārya, che erano probabilmente, in molti casi, i custodi della maggiorparte dei santuari descritti nel testo»[14].

I pāśupata sono da ricondursi ad una scuola shivaita apparsa nel secondo secolo d.C. e che sopravvive, ancora oggi, in Nepal.

Sono devoti di una “divina follia”. Fanno gesti indecenti, ripetono mantra, danzano e ridono e si cospargono il corpo di cenere.

Esiste anche un tantra pāśupata che invita a commettere ogni sorta di peccato per giungere a “negare la negazione”. Obiettivo dei pāśupata è quello di essere disprezzati da altre persone per superare ogni traccia di orgoglio e di ego.

Avimukta (da cui Avimukteśvara, “il dio di Avimukta”) è uno dei molti nomi di Benares e significa “colei che non è mai stata abbandonata” (da Shiva).

È stato molto utilizzato in passato (come è possible dedurre dal suo uso esclusivo in alcuni māhātmyas puranici), prima di essere sostituito dai più recenti Kāshī e Varanasi.

Nella Dashakumāracharita, “il racconto di dieci principi” (un storia — katha — scritta nel sesto-settimo secolo), « Avimukteśvara, il “Signore di Avimukta”, è citato come la divinità regnante a Kāshī»[15].

Il nome della stessa divinità è stato più volte trovato su sigilli del periodo Gupta emersi dagli scavi di Rajghat.

Un importante resoconto su Varanasi è stato scritto, circa un secolo dopo la fine del periodo Gupta, dal famoso viaggiatore cinese Hsiuen-Tsang, un monaco buddhista che visitò l’India, l’area dell’attuale sud del Nepal e diversi posti negli attuali Pakistan e Bangladesh. Ha sondato queste terre per circa 15 anni, cercando rari manoscritti che avrebbe poi tradotto in cinese.

Al rientro nel suo paese aveva con sé ben 657 testi in sanscrito.

Nel 630 visitò Varanasi, presentandola, nelle sue memorie, come un posto santo e prospero:

«[Varanasi] […] è densamente popolata. Le famiglie sono molto ricche e nelle abitazioni si trovano oggetti di raro valore. Le persone hanno un’attitudine morbida ed umana e si dedicano con passione allo studio. Sono soprattutto non credenti [che starebbe per hindu], pochi riveriscono la legge del Buddha. Il clima è mite, i raccolti abbondanti, gli alberi rigogliosi e si trova uno spesso sottobosco ovunque. […] Gli abitanti adorano soprattutto Maheśvara (Ta-Tseu-Tsaï). Alcuni tagliano i propri capelli, altri li annodano in un ciuffo e girano nudi (nirgranthas), ricoprono il proprio corpo di cenere (paśupatas) ed attraverso ogni sorta di austerità cercano di liberarsi dal ciclo delle morti e delle nascite.

Nella capitale (del distretto di Varanasi) ci sono 20 templi principali le cui torri e le cui sale sono in pietra ed in legno intagliati. Grossi alberi li ombreggiano e ruscelli di acqua pura li circondano. La statua di Dēva Maheśvara, fatta di teoushih (rame locale), è alta poco meno di 100 piedi. È grave e maestosa e sembra quasi sia viva»[16].

Uno o due secoli più tardi, nel Brhatkathāślokasam-graha di Budhasvāmin, troviamo un altro resoconto, questa volta meno ottimistico; vi vengono menzionati impostori, falsi asceti ed alcolisti.

Procedendo in ordine cronologico, stando a quanto è possible leggere nel testo, menzionato, di Bakker ed Isaacson: «dopo un modesto esordio, in periodo Gupta, Varanasi prospera e si sviluppa in uno dei maggiori luoghi di pellegrinaggio dell’intera India nel corso del periodo medievale»[17].

Questa crescita viene analizzata considerando alcuni fattori specifici:

«Una caratteristica importante del richiamo di Varanasi è stata, sin da principio, la sua fama di garantire la massima ricompensa, fosse questa il paradiso, l’unione con Dio o l’assurgere all’assoluto, immediatamente dopo il trapasso. Ebbene, questa caratteristica era considerata dal Māhātmya come unica. Questa è stata la caratteristica principale  del santuario di Avimukta sin dal suo inizio. Lo spazio crematorio può dunque aver avuto un profilo particolarmente alto dal quarto o quinto secolo in avanti sebbene questo sia stato ignorato nel primo Māhātmya della città santa.

Tuttavia, il Mārkandeyapurāna, scegliendola come il luogo del re Hariścandra [cui è oggi consacrato un ghat crema-torio], può confermare questa interpretazione storica.

È’ del resto indubitabile che il legame di Varanasi con la morte e la preminenza del suo spazio crematorio abbiano esercitato una particolare attrazione sugli asceti shivaiti, in particolare i pāśupata, giunti in città in grande numero»[18].

Re Hariścandra può essere considerata una figura equivalente a quella, biblica, di Giobbe.

Nel mito, al re Hariścandra (il nome significa, letteralmente, luce di luna dorata) venne chiesto, dal bramino Vishvāmitra, di pagare un dazio rituale.

Il re offrì generosamente tutto quello che aveva.

Diventato totalmente povero, era ancora sollecitato, dal bramino, a pagare il suo dazio (in una versione di questo mito il bramino era il dio Brahma che voleva una riprova della devozione del suo fedele). Insieme alla moglie ed al figlio, il re Hariścandra cadde in schiavitù iniziando a lavorare come Dom[19] nei ghats crematori di Varanasi.

Un giorno, il figlio di re Hariścandra morì per il morso di un serprente e la moglie portò il suo corpo al marito senza avere nemmeno una coperta per involgerlo e Brahma, soddisfatto dalla forza interiore del suo fedele, ripristinò il suo trono resuscitandone il figlio.

Come accennato poc’anzi, Hariścandra Ghat è uno dei due ghats crematori della città ed alcune persone, soprattutto tra quelle che vivono nelle sue vicinanze, credono sia il più antico (l’altro è Manikarnika Ghat, più a nord). Non sono pochi i bramini ed i pandits che scelgono di esservi cremati.

Non dobbiamo dimenticare che la stessa presenza degli ordini pāśupata contribuì notevolmente «allo sviluppo di Varanasi come città santa e come città del sacro»[20]. Vivendo nei luoghi crematori, questi divennero, per i pellegrini, «esempi viventi dell’abilità umana di conquistare la morte ignorando le sue forze contaminatrici»[21]. Di conseguenza:

«Lo Śmaśāna [spazio crematorio] divenne il cuore di Varanasi, tanto da un punto di vista logistico quanto religioso e così la città sviluppò il suo carattere unico che richiama tutti gli hindu, a prescindere dalle loro inclinazioni, affermandosi sugli altri luoghi sacri del subcontinente»[22].

 

 

Dall’undicesimo secolo ad oggi

 

Un altro interessate “contributo esterno” su Benares ci viene dall’antico mondo islamico, ovvero da uno studioso persiano dell’undicesimo secolo, Al-Bīrūnī (973-1048), grande esperto di matematica, astronomia, fisica, geografia, storia, linguistica e scienze naturali.

Viene inoltre considerato il fondatore dell’Indologia.

Dopo aver trascorso un cospicuo periodo nel sub-continente, scrisse il Kitab fi Tahqiq ma l’il-Hind (Ricerche sull’India).

La sua descrizione di Benares probabilmente risale ad un periodo compreso tra il 1017 ed 1030 d.C.:

«Gli hindu considerano sacri alcuni posti per ragioni connesse alla loro legge ed alla loro religione, ad esempio Be-nares (Baranasi). I loro anacoreti vi giungono per rimanervi per sempre, come i responsabili della Ka’ba debbono rimanere costantemente a La Mecca. Gli anacoreti hindu vogliono vivere a Benares fino alla fine dei loro giorni, nella consapevolezza che il premio dopo la morte sarà il migliore possibile. Si dice che un assassino può essere punito ovunque per il suo crimine salvo il caso che entri nella città di Benares, dove può ottenere il perdono.

Riguardo le cause della sacralità della città si racconta che: “Brahma avesse quattro teste. A seguito di una discus-sione tra lui e Samkara, ovvero Mahādeva (uno dei nomi di Shiva) ed il successivo combattimento, una delle teste gli venne tagliata. A quel tempo era uso che il vincitore prendesse la testa dell’avversario nella sua mano, facendola dondolare per svergognare il caduto e per ribadire il suo coraggio e la sua abilità guerriera. Inoltre, una briglia venne posta nelle labbra della testa ciondolante di modo che venisse definitivamente disonorata da Mahādeva che la portava sempre con sé fino a che giunse a Benares dove la testa scivolò dalla sua mano per poi scomparire”»[23].

Dopo Al-Bīrūnī molti altri musulmani giunsero a Benares ma con altri intenti.

Nel 1206 Delhi divenne un sultanato e l’intera Valle del Gange rimase in mani musulmane per oltre 5 secoli.

Nel corso di questo lungo periodo, la vita religiosa degli hindu divenne particolarmente dura ed i loro templi, in città, vennero distrutti almeno 6 volte.

Nel sedicesimo secolo un periodo eccezionalmente pacifico venne garantito dall’imperatore Moghul, liberale, Akbar «che non solo permise ma, in alcuni casi, finanziò la ricostruzione di templi»[24].

La politica cambiò nuovamente di segno con il nipote di Akbar, Shāh Jahān e, soprattutto, con il successore Aurangzeb che distrusse templi importanti, costruendo, sulle loro macerie, moschee.

Pensando di combattere l’idolatria, Aurangzeb tentò anche di cambiare il nome della città in Muhammadabād ma senza successo.

Benares sopravvisse alla violenza di esponenti intolleranti dell’Islam continuando ad essere un posto molto attivo da un punto di vista intellettuale e religioso[25].

Nel corso del “periodo islamico” vissero a Benares due importanti poeti hindu: Kabīr (nel quindicesimo secolo) e Tūlsi Dās (che tradusse testi importanti di letteratura sacra, ad esempio il Rāmāyana, in hindi), nel sedicesimo secolo.

C’è una leggenda affasciante riguardo Kabīr che merita di essere riportata:

«[Kabīr] era nato musulmano ed era discepolo di un santo dell’islam, sostengono alcuni. Secondo altri era un hindu, un vaishnava, discepolo del bhakta Rāmānanda. Si racconta che quando morì i seguaci di entrambe le religioni litigarono per le sue reliquie. Quando il telo che copriva il suo corpo venne sollevato, tuttavia, non c’era altro che un mazzo di fiori. Questa leggenda apocrifa rende l’essenza del messaggio di Kabīr: non voleva essere ricondotto ad alcuna religione. Ridicolizzava con uguale veemenza i testi sacri dei musulmani e quelli degli hindu, i mullah ed i bramini, La Mecca e Kāshī»[26].

Alla fine del diciassettesimo secolo l’impero musulmano si disgregò. Dopo un periodo transitorio, durante il quale Benares rimase sotto la giurisdizione di re hindu, iniziò ad essere amministrata dai più tolleranti funzionari della corona inglese. La città venne ricostruita e modernizzata. Il governatore generale, Warren Hastings, approvò il progetto del Sanskrit College, realizzato nel 1853. Mezzo secolo dopo un importante pandit, Madan Mohan Mālavīya, iniziò a promuovere la creazione di una moderna università hindu, per preservare le tradizioni filosofiche e culturali del luogo senza nulla togliere alla trasmissione delle scienze moderne.

In questo lavoro venne supportato dalla riformatrice inglese Annie Besant, terzo presidente della Società Teosofica, che visse a lungo nella città.

Nel 1916 il viceré dell’India pose la prima pietra della Banāras Hindu University (BHU).

 

 

Alcune parole conclusive su Benares oggi

 

«Benares sta cambiando ogni giorno e pullula di internet points», scrivevo in uno dei miei precedenti libri. Allo stesso tempo, Benares è un posto immutabile, rappresentando una sorta di espressione vivente della “abolizione del tempo”.

La vita quotidiana di Benares è, ancora oggi, marcata da semplici e complessi rituali sulle gradinate del Gange o nelle sue stesse acque. Particolarmente suggestiva è la celebrazione serale dell’Arati (l’offerta rituale di luce alla dea Ganga) a Dasāshwamedha Ghat che è stata oggetto, il sette Dicembre 2010, di un attentato terroristico (che fortunatamente non ha avuto conseguenze particolarmente rovinose).

Come città-simbolo — «è un testo vivente dell’induismo»[27] — rappresenta non di rado un target per gruppi di estremisti islamici. Per questa ragione ci sono rigorosi controlli alle entrate dei centri commerciali, nella BHU, nelle stazioni dei treni ed in altri luoghi affollati.

Nell’introduzione a questo capitolo, non ho nascosto le difficoltà di questa città antichissima e sacra, persuaso che è importante mantenere un’attitudine realistica (quando pensiamo a Benares dobbiamo costantemente distinguere la realtà dal mito, prassi talora difficile per persone la cui attitudine, per riprendere nuovamente la citazione di Mircea Eliade, è quella di “pensare in termini mitici”).

Tuttavia, in 6 anni di esperienza, ho visto alcuni importanti cambiamenti e spero che la città beneficerà della generale crescita economica del subcontinente.

Credo sia utile sottolineare che la crescita in questione debba essere gestita nel modo giusto e che, a mio parere, alcuni ideali della rivoluzione francese e del processo europeo di secolarizzazione (focalizzato più sull’essere umano che su Dio o sulla tradizione) possano essere di beneficio allo sviluppo indiano mentre alcuni aspetti della cultura tradizionale di Benares e del paese di cui è parte possano aiutare ad affrontare la crisi, innanzitutto di ordine etico e culturale, dell’Occidente.

Come ho scritto precedentemente, credo che l’influenza debba essere reciproca; un valido dialogo interculturale tra la saggezza dell’Oriente ed alcune conquiste sociali dell’Occidente, una grande sfida da raccogliere per i prossimi decenni, in vista di un’utopica realizzazione di un uomo globale.

Tornando, in conclusione, a Benares, credo davvero che un moderato contagio culturale occidentale possa essere più auspicabile — per il miglioramento della sua qualità della vita — di un tradizionale, talora inutile, orgoglio di casta ancora drammaticamente diffuso, a parere di chi scrive, in questo luogo “santo e malsano”.

 

 

Per approfondire

 

Un trattato sull’antichissima disciplina yogica, su una tradizionale scuola di Hatha Yoga nel cuore di Benares — la “città indiana della tradizione” — e sulla sua fondatrice ed insegnante: Smriti Singh.
Nell’autunno del 2009 i suoi insegnamenti hanno raggiunto, per la prima volta, l’Europa.
È stato un primo passo sulla via della loro internazionalizzazione, cui hanno fatto seguito — nel 2010, nel 2011 e nel 2012 — successivi tour europei della yogini di Benares.
Il diffondersi di questi “semi yogici” è coerente con un fenomeno più ampio: “l’irruzione dell’India nella storia”.
Benares rappresenta ancora oggi, nel subcontinente,un fondamentale tirtha (luogo sacro), uno scrigno in cui un’ancestrale conoscenza spirituale è stata preservata dalla corruzione del
tempo. È auspicabile che qualcosa di questo tesoro possa essere saggiamente investito in un dialogo interculturale ed un’insegnante come Smriti Singh, che ha iniziato ad apprendere i fondamenti dello yoga prima di iniziare a camminare (dalla mamma, anch’essa yogini), ha tutte le risorse per essere tra i protagonisti di questo difficile ma suggestivo confronto.

 

Manuel Olivares, sociologo di formazione, vive e lavora tra Londra e l’Asia. Esordisce nel mondo editoriale, nel 2002, con il saggio Vegetariani come, dove, perchè (Malatempora Ed).
Negli anni successivi, ancora con Malatempora, pubblicherà: Comuni, comunità ed ecovillaggi in Italia (2003) e Comuni, comunità, ecovillaggi in Italia, in Europa, nel mondo (2007).
Nel 2009 fonda l’editrice Viverealtrimenti, per esordire con Un giardino dell’Eden, il suo primo testo di fiction e Comuni, comunità, ecovillaggi, il suo terzo su un antico e moderno movimento di comunità sperimentali ed ecosostenibili.
Nel 2011 pubblica Yoga based on authentic Indian traditions, il suo primo libro in inglese e Barboni sì ma in casa propria, una raccolta di racconti e poesie. Nel 2012 pubblica Con Jasmuheen al Kumbha Mela, dipanando un interessante accostamento tra New Age e tradizione.

 
Prezzo di copertina: 15.50 euro
Prezzo effettivo: 13 euro

 

[1] «Non ci sono molti posti sulla terra? Quale di questi può eguagliare un granello della polvere di Kāshī  (antico nome di Benares). Non ci sono molti fiumi che corrono verso il mare? Quale di questi è come il Fiume del Paradiso di Kāshī? Non ci sono molti luoghi di liberazione sulla terra? Nessuno di questi eguaglia la più piccola parte della città mai abbandonata da Shiva. Il Gange, Shiva e Kāshī: dove questa trinità è vigile nessuna meraviglia che vi si trovi la grazia che conduce alla perfetta beatitudine!».

In: Diana Eck, Banaras city of light, Penguin Books, New Delhi, 1993, p. 7, traduzione mia.

[2] Riguardo il nome Kāshi un importante studioso, il Reverendo M.A. Sherring, offre un’altra spiegazione etimologica:

«Da tempo ne sono state dimenticate le origini [del nome in questione] ma c’è un’ipotesi che può forse svelarne l’etimologia. Tra i discendenti del re Ayus c’era Kāśa, il cui figlio era cono-sciuto con il patronimico di Kāśeya, Kāśiya e Kāśi. Il successore di Kāśi ed i suoi successori erano chiamati Kāśis». (In: Sherring Rev. M.A., Benares, the sacred city of the hindus in ancient and modern times, Rupa & Co, New Delhi, 2001, pp. XVIII-XIX, traduzione mia).

[3] Diana Eck, Banaras city of light, Penguin Books, New Delhi, 1993, p. 7, traduzione mia.

[4]  Ibidem.

[5] Māhātmyas è una categoria di antiche opere letterarie di glorificazione di un posto sacro, di una divinità o di un rituale.

[6] Bakker H.T.-Isaacson H., The Skandapurana, Vol. II, Egbert Forsten, Groningen (Netherlands), 2004, p. 19, traduzione mia.

[7] La liberazione finale che accade dopo la morte di colui che ha ot-tenuto il pirno risveglio.

[8] Ivi, p. 19.

[9] Ivi, p. 20.

[10] Ibidem.

[11] Ibidem.

[12] Ivi, p. 23.

[13] Ivi, p. 52.

[14] Ivi, p. 41.

[15] Diana Eck, Banaras city of light,  op. cit., p. 130, traduzione mia.

[16] Ivi, p. 35.

[17] Ivi, p. 58.

[18] Ibidem

[19] I Doms sono una casta di intoccabili che vivono negli spazi crematori, vendendo la legna, raccogliendo le imposte funerarie e gestendo il fuoco sacro in costante attività, utilizzato per le pire.

Nella leggenda il re Hariścandra venne acquistato, come schiavo, da un Dom per svolgere questo genere di lavori.

[20] Bakker H.T.-Isaacson H., The Skandapurana, Vol. II, Egbert Forsten, Groningen (Netherlands), 2004, p. 58, traduzione mia.

[21]  Ibidem.

[22]  Ibidem.

[23] Sachau E.C., Albiruni’s India, Rupa&Co, New Delhi, 2009, pp. 555-556, traduzione mia.

[24]  Diana Eck, Banaras, city of light, p. 83, traduzione mia.

[25] «Ospitava grandi maestri di filosofia, speciaalmente di scuola Nyāya (Logica) ed Advaita (Non-Dualismo) oltre a maestri di grammatica sanscrita». (In: Diana Eck, Banaras, city of light, p. 85, traduzione mia).

[26]  Diana Eck, Banaras, city of light, p. 86, traduzione mia.

[27] Ivi, p. 9.

Riguardo l’importanza di Benares per l’induismo scrive Sherring: «è certo che la città viene considerata, da tutti gli hindu, come coeva della nascita stessa dell’induismo, una nozione derivata tanto dalla tradizione quanto dai loro stessi scritti. Allusioni a  Benares sono molto abbondanti nell’antica letteratura sanscrita; e probabilmente non esiste città, in tutto il mondo indostano, maggiormente citata» (In: Rev. M.A. Sherring, Benares, the sacred city of the hindus in ancient and modern times, Rupa & Co, New Delhi, 2001, p. 4, traduzione mia).