Breve e intenso “esilio cambogiano”

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Breve e intenso “esilio cambogiano”

«Ogni tanto bisogna partire, nostro malgrado. Lo sanno tutti coloro che hanno deciso di vivere in India o in altri paesi dove sia richiesto un visto per la permanenza e non vi siano, per scelta, importanti agevolazioni di sorta (ad esempio un matrimonio con una persona del luogo). Si può avere la fortuna di rimanere più o meno a lungo in uno dei paesi in cui ci siamo creati delle radici, di avere permessi più o meno “generosi” ma giunge, inesorabile, il momento della partenza. In principio può essere spaesante poi, come sempre, ci si abitua e organizza. 

È uno degli aspetti che determina il destino di una vita nomadica».
(Manuel Olivares, Gesù in India?, Viverealtrimenti, P. 13)

 

…Ed eccomi in Cambogia, in attesa di un nuovo visto per l’India. E’ sempre un po’ scocciante lasciare le proprie zone di comfort ma, come si accennava, ogni tanto è necessario. Speriamo di avere, oggi, il nostro bravo nuovo visto per l’India ed iniziare il nostro nuovo viaggio in quel gran paese a partire dalla Calcutta Bookfair.
Ma rimaniamo in Cambogia, ora. E’ la mia terza esperienza e sto pensando possa diventare uno dei paesi di riferimento per il Progetto – transnazionale, transcontinentale e bilingue – Viverealtrimenti. E’ ancora presto per non esprimere giudizi emotivi, dettati soprattutto dall’effetto-novità.
Vediamo dunque di approfondire, per cominciare e, ovviamente, nella misura del possibile, la realtà di questo paese.
Per farlo possiamo avvalerci, con il suo permesso, di un bel blog curato da un italiano che vive stabilmente in Cambogia da 23 anni: Claudio Bussolino.
Chi è Claudio? Avevo letto il suo blog, segnalato dalla rivista In Thailandia con cui ho avuto dei contatti. Avendo come destinazione Phnom Penh per le ragioni suddette, mi sono naturalmente premurato di contattarlo via mail. Lui è stato molto disponibile e mi ha raggiunto nella guesthouse da cui sto scrivendo ora queste righe, nel cuore della “Perla dell’Asia” (per usare l’epiteto attribuito un tempo a Phnom Penh). Avevamo fissato un appuntamento per le otto di mattina (Claudio è molto mattiniero), con la prospettiva che lui mi avrebbe accompagnato, dopo la breve chiacchierata, all’ambasciata indiana in auto.
Io alle 7.30 ero nello spazio comune della guesthouse per fare colazione e Claudio mi aveva abbondantemente preceduto, in piedi dalle quattro di mattina.
La chiacchierata è stata molto interessante, Claudio ha davvero una buona preparazione sul sud-est asiatico.
Del resto ha pubblicato diversi libri su diversi paesi ma lasciamo che si presenti lui stesso, come ha fatto nella colonna a sinistra del suo blog:

 

«Credo che le vicende della mia vita non siano di alcun interesse se non per me che le ho vissute partendo dall’alta Val di Susa, dove sono nato, passando per Torino, dove ho vissuto circa 40 anni, e finendo poi in Cambogia, dove uso come ferma libri un’urna di bronzo dentro la quale, prima o poi, qualcuno metterà le ceneri che resteranno di me. Sono ormai un vecchio rottame, ma dell’Indocina ho lunga memoria. Nel 1979 ho fatto il mio primo viaggio in Birmania e nel 1980 sono andato per la prima volta in Vietnam. Sono stato in Laos, quando il paese era ancora meta ignota al turismo, e nel 1982 sono andato nella Cambogia che allora stava vivendo i duri momenti della guerra civile. Dal 1995 abito a Phnom Penh dove lavoro per Ascolotus Cambogia che stoicamente mi sopporta e assicura a me e alla mia famiglia il piatto di riso quotidiano. Scrivo ancora qualcosa e la Casa editrice Polaris ha pubblicato nel passato alcuni miei libri. Ho iniziato con il Vietnam, ho poi proseguito con Angkor, Cambogia, Myanmar, Laos e Indocina. Ho tradotto e commentato il libro di Henri Mouhot Viaggio nei regni del Siam, Cambogia e Laos e ho terminato un nuovo libro sulla Birmania. Di entrambi attendo la pubblicazione.
Ora occupo il mio tempo come archivista e scriba del blog La Rivista indocinese dove chi è interessato alle attualità dei paesi indocinesi può trovare informazioni e notizie aggiornate su Cambogia, Laos, Thailandia e Vietnam».

 

Ho proposto a Claudio un’intervista, non foss’altro per avere il piacere di incontrarlo ancora e lasciarlo raccontare, riflettere, argomentare ma lui ha gentilmente declinato, vivendo fuori Phnom Penh ed essendo impegnato nel corso della settimana di mia permanenza. Come già accennato, tuttavia, mi ha dato il permesso di utilizzare, senza riserva alcuna, il suo blog. Vediamo dunque di procedere ad un sano saccheggio, immergendoci pur fugacemente in questo bel, nobile, paese dalla storia suggestiva: la Cambogia.
Per iniziare, qualcosa sulla dimensione allargata di cui fa parte, l’Indocina:

 

«Molti sentirono parlare, per la prima volta, dell’Indocina solo nei primi anni ’50 quando sui giornali fu pubblicata la notizia che in uno sconosciuto luogo chiamato Dien Bien Phu, un ancora più sconosciuto generale di nome di Vo Nguyen Giap aveva umiliato i para della Legione Straniera. Questo nome divenne familiare quando negli anni ’70 gli schermi televisivi e le riviste portarono in ogni casa le immagini della guerra combattuta e persa dal gigante americano contro i piccoli e irriducibili Vietcong. Giunsero poi altre tragiche notizie sul Laos sommerso da oltre due milioni di tonnellate di bombe aeree e dalla Cambogia piombata in preda della spietata utopia omicida dei Khmer rossi. Poi cadde il silenzio. Agli inizi degli anni ’80 il Vietnam fu percorso dai primi timidi e quasi avventurosi viaggi turistici. La porta si era aperta. Si aprirono subito dopo anche le frontiere di Laos e Cambogia. Il turismo ha contribuito a fare conoscere questi paesi, dove ormai è scomparsa anche la memoria della guerra e delle tragedie passate, ma è una conoscenza superficiale, spesso erronea e intrisa di pregiudizi. Ne è consapevole chi vive in questi paesi e, di tempo in tempo, scorre gli aricoli che compaiono su riviste, giornali e blog italiani: povera e spesso squallida informazione che pesca nei luoghi comuni, ignorando i fatti e non curandosi assolutamente dell’attendibilità delle notizie che diffonde. Anche le più “prestigiose” testate pubblicano notizie pescate su Internet senza preoccuparsi di verificarne la veridicità. Dietro questa brutta “disinformazione” non c’è nessun disegno politico, c’è solo una presuntuosa ignoranza dai deleteri effetti. Anche il viaggiatore più accorto giunge qui portandosi dietro un lordo bagaglio di false convinzioni, enormi preconcetti ed erronee credenze. La storia di questi paesi resta ignota e ignorata, o si limita alle vaghe notizie tratte da riviste, giornali o addirittura dai film. Per capire questa antica cultura che ha regalato al mondo lo splendore di Angkor imperiale, la sublime bellezza di Luang Prabang e il fascino della millenaria Hanoi e per comprendere anche i drammi dei passati decenni, bisogna conoscere la storia di queste civiltà che in Occidente sono ancora misconosciute».

 

Restringiamo ora il focus al paese del mio “breve ed intenso esilio”, a partire dalla sua genesi e dal progenitore degli Khmer. Potrei fare una sintesi più o meno maldestra di quanto ha scritto Claudio in merito ma credo che il saccheggio del suo blog debba essere perpetrato, dati il fascino dei contenuti e la godibilità dello stile:

 

«Anche i nomi sono importanti perché spesso sanno raccontarci dei brandelli di Storia. Noi la chiamiamo Cambogia, per gli anglofoni è Cambodia ma per i Cambogiani si chiama Kampuchea e per spiegare l’origine di questo nome spesso si fa riferimento ad un’antica leggenda riportata in un’iscrizione del X secolo nel tempio di Baksei Chamkrong secondo la quale il progenitore degli Khmer sarebbe stato un eremita di nome Kambu a cui il dio Shiva diede in sposa la ninfa celeste Mera e dalla loro unione nacquero gli Khmer che abitavano il “paese dei figli di Kambu”. Ma questa è solo una leggenda. Nell’iscrizione di Sdok Kak Thom in cui si narra la consacrazione del sacro linga sul Phnom Kulen da parte di Jayavarman II nell’anno 802 esplicitamente si parla di “paese dei Kambuja” e questi Kambuja non erano assolutamente degli sconosciuti. Il primo a parlarcene è stato il vecchio Erodoto che nelle Istorie ci racconta che il padre di Ciro il Grande, fondatore dell’Impero persiano, si chiamava Cambise. Cambise, in italiano, corrisponde al greco Kambuses, che altro non è che la traslitterazione fatta da Erodoto del nome iranico Kambuja. Gli studiosi sono, come sempre, piuttosto divisi sulla etimologia di questo nome che compare anche nel Mahabharata e nel Ramayana e venne usato da Strabone e Tolomeo per indicare una tribù di guerrieri che intorno al II secolo a.C. scese in India – insieme a Saka, Yavana e Pahlavavenendo da Afghanistan e Turkmenistan. Non erano però queste le loro terre di origine. Le tracce più antiche ci portano in Uzbekistan e Kazakistan, le regioni che un tempo erano chiamate Transoxiana e Sogdiana, fino alle pendici del Caucaso da dove aveva preso avvio la discesa verso Sud delle popolazioni iraniche. D’altra parte in lingua iranica “re” o “signore” si diceva Boja, simile al Bhoja sanscrito, mentre Kam può voler dire regione ed è una radice che ritroviamo nei nomi di molte località: la valle di Kama che collega Afghanistan e Pakistan, Kama-bela che è diventato Kabul, Kazal-Kam e Kara-Kam sul corso dell’Oxus, fino a una regione ai piedi del Caucaso che si chiamava Kambysene. I Kamboja, o Kambuja, erano quindi una popolazione di ceppo iranico ed è una etnia che non si è estinta. Ancora oggi ci sono dei clan di Kamboja che vivono in Afghanistan nella regione del Nuristan, nome attuale del Kafirstan celebrato da Kipling nel racconto “L’uomo che volle farsi Re”, e nel Punjab indiano, per un totale di circa un milione e mezzo di individui che sono ancora celebrati come abilissimi ashvakas, cioè “cavalieri”. Gli antichi testi narrano come i Kamboja si resero padroni, agli inizi dell’Era cristiana, della regione di Mathura, l’attuale Uttar Pradesh. Si trovano loro tracce anche nel Sud-Ovest del continente e come i Pahlava, etnia di ceppo partico, si insediarono nel Sud mentre alcuni gruppi traversarono il mare per stabilirsi in Sri Lanka. Un’ altra corrente si spinse a Est e percorrendo le regioni pedemontane dell’Himalaya raggiunse il Bengala. Nel corso del quarto secolo d.C., forse via terra ma soprattutto via mare, alcuni clan di Kamboja si spinsero ancora più a Oriente e il cammino fino al cuore dell’Indocina non fu certo difficile per questi guerrieri, discendenti dei cavalieri che erano venuti dalle lontane steppe transcaucasiche.

 

Raggiunto il regno del Fu-nan non si insediarono nelle ricche città della costa, popolate di marinai e mercanti, ma preferirono prendere possesso delle regioni montagnose che facevano corona alle grandi pianure bagnate dal Mekong fondando un regno chiamato Cenla. Nel 476 d.C. cadde l’Impero romano d’Occidente e in quello stesso anno moriva in India Skandagupta dando inizio all’irreversibile declino del grande Impero Gupta che venne poi travolto dalle invasioni degli Unni bianchi.
Crollavano così due caposaldi dell’economia antica e il flusso mercantile si arrestò provocando il tracollo economico del Fu-nan. Furono allora i guerrieri Kamboja che imposero la loro egemonia su tutta la terra di Cambogia. Non ci fu guerra ma in un “matrimonio di Stato” un principe funanese sposò una principessa kamboja e sorse così la dinastia da cui nacquero i sovrani di Angkor».

 

Nel blog, a questa introduzione seguono diversi post di approfondimento, ancora nella colonna a sinistra. Chi vuole può dunque immergersi nella storia e nell’arte di Angkor ed in altro ancora.
Qui, volendo limitarci ad offrire glimpses del bel lavoro di Claudio, veniamo a considerare un’altra importante sezione del blog, relativa al fenomeno degli Khmer rossi.

Sembra proprio ci siano diversi elementi da chiarire. Non credo, naturalmente, sia questa la sede se non per inoculare qualche sano germe di dubbio.

 

«Per molte persone tutta la recente storia della Cambogia si riduce al binomio Pol Pot e Khmer rossi. Si parla di “genocidio”, ma pochi sanno esattamente cosa, quando e perché ciò accadde. Il governo di Kampuchea democratica durò 3 anni, 8 mesi e 20 giorni: dal 17 aprile 1975 al 7 gennaio 1979. Il “periodo dei Khmer rossi” è stato, però, solo il momento più tragico di una lunga guerra durata 29 e 4 mesi: dal marzo 1969 al luglio 1998.
La storia è, per molti, confusa e approssimativa. Cerchiamo di ripercorrerne le tappe più importanti.

Quel 17 aprile 1975
François Bizot, che ne fu testimone, scrisse che quel mattino del 17 aprile 1975 “i primi Khmer rossi entrarono nella capitale venendo da Nord”. Nel suo libro Le Portail racconta che sembravano tutti molto giovani, dei ragazzi. Guardavano con stupore la città che non avevano mai visto. Il volto era scuro come il cuoio e indossavano informi abiti che secondo la vecchia consuetudine contadina erano stati tinti di nero con i frutti del dangkao. Ai piedi portavano sandali di plastica o fatti con i pneumatici delle auto e sul capo avevano la krama a quadrettini rossi oppure il berretto verde reso famoso dalle Guardie rosse di Mao. Mentre faceva ala al loro silenzioso sfilare, la gente di Phnom Penh non riusciva a dissimulare la gioia per la fine di una guerra durata 5 anni. Quasi due terzi delle più di due milioni di persone che affollavano la capitale erano dei profughi fuggiti dalle campagne devastate e rese deserte da una pioggia di tremila chili di bombe per ogni chilometro quadrato. Tutti speravano che quel lungo incubo fosse finito anche se nessuno riusciva a immaginare cosa ora sarebbe successo. La città era affamata e il problema immediato era per tutti quello di trovare del cibo. Restavano in attesa, ma pochi ebbero dei dubbi quando in quello stesso pomeriggio cominciarono a circolare auto con altoparlanti che invitavano tutte le persone a evacuare urgentemente la città perché erano previsti massicci bombardamenti di rappresaglia da parte della aviazione americana. Chi era giunto dalle campagne si affrettava a riprendere la via di casa. I cittadini erano ancora troppo storditi per opporsi. I recalcitranti furono minacciati ed i pochi che si opponevano vennero eliminati mentre tutti i graduati dell’esercito sconfitto e i dirigenti del governo repubblicano di Lon Nol furono con l’inganno invitati a raggiungere le file del Governo Reale di Unità Nazionale e quando si presentarono furono tutti uccisi. Era così iniziata l’era di Kampuchea Democratica: sarebbe durata 3 anni, 8 mesi e 20 giorni. Tutti parlano di quel periodo, ma nessuno racconta cosa era successo prima e cosa avvenne dopo. Furono 3 anni, 8 mesi e 20 giorni tragici, ma per il popolo cambogiano furono solo la tappa più dolorosa di una guerra durata 29 anni e 4 mesi. I crimini commessi da Pol Pot e dal regime dei Khmer rossi furono atroci ma il popolo cambogiano non ha dimenticato tutto ciò che accadde prima del 17 aprile 1975 e dopo il 7 gennaio 1979. Ridurre tutta la storia recente della Cambogia solo a quei 3 anni, 8 mesi e 20 giorni, sarebbe come se noi restringessimo tutta la storia d’Italia sotto il fascismo e durante la Seconda Guerra mondiale al solo periodo della Repubblica di Salò. Per capire cosa fu Kampuche democratica bisogna alzare gli occhi e andare a vedere cosa accadde in Cambogia dagli anni Sessanta fino agli ultimi anni Novanta. Bisogna partire da quando la Cambogia ottenne l’indipendenza dalla Francia e Sihanouk tentò di imporre su tutto il paese il suo regime autocratico».

 

A questo punto, non posso che invitare chi ci sta seguendo, qualora avesse un sano desiderio di approfondimento, a cliccare sui links sottostanti che rimandano, naturalmente, ad altri post del blog di Claudio:

 

Dall’indipendenza dalla Francia alla guerra

Gli occidentali cominciano a non capire nulla

Quei tre anni, otto mesi e venti giorni

Guerra civile e ricostruzione

Il processo ai Khmer rossi

Inquietanti interrogativi

Sihanouk, Pol Pot e altri

I nemici di Pol Pot

Quante vittime?

Bush senior al salvataggio dei film di Sihanouk

Nixon e Kissinger…poi venne Obama

Grazie Claudio, spero di poter dire: Ce n’est qu’un debut e di poter tornare presto in questo bel paese, rimanendoci un periodo ragionevole per conoscerlo in maggiori dettagli. A leggere le statistiche dell’Economist, il paese starebbe vivendo una sorta di rinascimento. I dati della crescita (7.2% all’anno) sono solo un gradino sotto a quelli dell’India, magnificato come il gigante politico ed economico del momento.
Sappiamo che la realtà è ben diversa, che il quotidiano delle persone, soprattutto di una schiacciante maggioranza di persone, è ben diverso.
Ne discutevamo con un cooperante in un modestissimo ristorante nel centro della città, in cui abbondano le Organizzazioni Non Governative.
Speriamo di poter affrontare presto cruciali questioni in maniera più approfondita, per ora: un saluto tropicale da Phnom Penh, in attesa di un nuovo visto e di un volo per Bangkok e poi Chiang Mai, dove sostare un paio di settimane prima di ripartire per la Calcutta bookfair.
Che il buon Dio, al solito, “ce le mandi tutte più o meno buone o, almeno, non troppo cattive”…

 

Manuel Olivares

www.viverealtrimenti.com