Islam e marabuttismo

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Islam e marabuttismo

Di seguito il quinto articolo del nostro collaboratore Silvio Marconi, per la serie: eterodossie, eresie o, semplicemente sincretismi nell’Islam”.

Il primo riporta il titolo della serie. Per leggerlo cliccare qui!

Leggi il secondo articolo: Aicha e il Sufismo.

Leggi il terzo articolo: Islam, confraternite, esoterismo e dintorni.

Leggi il quarto articolo: Drusi e dintorni.

 

Fra le varie correnti considerate (più che altro dagli Occidentali e dalle correnti più integraliste dell’Islam, in un significativo connubio….) banalmente come “forme eterodosse dell’Islam” (o peggio come “eresie” o ancor peggio “apostasie”, cosa che implica conseguenze atroci….) senza riconoscerne il carattere sincretico, o meglio polisincretico, vi è certamente il fenomeno che va sotto la definizione-ombrello di “marabuttismo” o di “Islam marabuttico”; un fenomeno la cui complessità ed articolazione impone appunto l’uso di un termine-contenitore che come tutti i concetti generalizzanti rischia fortemente di banalizzare ed appiattire la realtà.

 

Breve analisi storica del fenomeno

Il termine deriva da marabut che viene da  “asceta (marbut), ma anche da morabitun (“colui che vive in un ribat”), sebbene non tutte le figure marabuttiche siano state effettivamente asceti e non poche figure marabutti che non hanno avuto a che fare con alcun ribat mentre va anche precisato ulteriormente (a riprova già di un primo livello di complessità) che tutte le  figure marabuttiche vissute in un ribat hanno avuto una dimensione ascetica, mentre non tutti coloro che hanno operato non in ribat sono diventati figure marabuttiche. In ogni caso le dimensioni ascetica e dell’appartenenza ad un ribat, in autonomia fra loro o in associazione fra loro, rappresentano certamente due componenti essenziali della definizione concettuale ed anche storica del “marabuttismo”. Proprio tenendo conto di queste componenti si può analizzare storicamente il fenomeno, senza ridurlo esclusivamente ad epoche relativamente recenti o ad aree molto limitate geograficamente (alcuni autori lo riconoscono propriamente solo dal XIII-XIV secolo in poi e ne collocano la fioritura a partire dalla sola area marocchina) e riconoscendo come invece si tratti di una realtà che riguarda in una prima epoca (diciamo fra l’VIII ed il IX secolo), l’intera regione nordafricana, poi, nei secoli X-XI, anche regioni della Penisola Iberica e Sicilia (ed in termini diversi anche la Sardegna, nonché capace di proiettare i suoi influssi fino in Occitania ed in aree della Puglia e della Campania) ed infine, dal XIV al XIX, in grande fioritura oltre che nell’area nordafricana (prima Sicilia e poi Penisola Iberica essendo state perdute dall’Islam) anche in quella dell’Africa saheliana, sub sahariana. Può essere interessante notare che il cognome “Morabito” italiano deriva proprio da quel termine e denota una origine nettamente islamo-nordafricana.

 

Pratiche cultuali e rituali legate al marabuttismo

L’elemento che accomuna le diverse modalità storico-culturali e geografiche di caratterizzazione delle figure a cui fanno riferimento le pratiche cultuali e rituali che vengono contenute nel termine di “marabuttismo” è quello della venerazione (in termini cristiano centrici si parlerebbe di “santificazione”) del personaggio e della sua tomba e già da qui si può notare come tale realtà si intrecci con quella sufica di cui si è già parlato, pur non coincidendo necessariamente, anzi non coincidendo affatto, nella maggior parte dei casi, con essa. La caratterizzazione del marabut e le pratiche cultuali e rituali collegate ad essa ed ai poteri che si attribuiscono a quella figura ed alla sua tomba hanno molto a che fare con la dimensione delle concezioni attinenti i culti degli antenati dell’ambito africano sub sahariano, non solo saheliano ma di quella che viene comunemente detta “Africa Nera” più a Sud del Sahel. E’ un insieme di concezioni che hanno a che fare con il rapporto dialettico fra mondo dei vivi e mondo dei morti, con il ruolo degli antenati reali e di quelli mitici in tale rapporto, con i poteri che a costoro vengono attribuiti e che si trasla in ambito islamico attraverso varie vie, generando polisincretismi. Una prima via, la più lunga storicamente, è data dall’assorbimento in ambito islamico di concezioni maghrebine antiche, proto-berbere, che a loro volta sono figlie di sincretismi con quelle dell’Africa sub sahariana dovuti al traffico carovaniero di merci ed idee transahariano, nel quale va incluso anche quello degli schiavi neri in età antica; su questo substrato intervengono anche elementi della tradizione mistica proto cristiana, essa stessa peraltro ricca di sincretismi di matrice berbera, a partire da quelli che si trovano descritti nelle opere di Sant’Agostino (che parla di una sua terra nordafricana disseminata di “tombe di santi”) e soprattutto nelle concezioni e nelle pratiche della religiosità popolare nordafricana proto cristiana, non estranee anche a correnti gnostiche di origine orientale.

Una seconda via è quella collegata invece alla continuazione di tale traffico carovaniero (inclusa la componente schiavile) in epoca islamica medievale, tardo medievale e postmedievale. Una terza via di sincretizzazione è quella, più tarda, collegata alla fioritura di dinastie islamiche sud-marocchine o addirittura saheliane come quella degli Almohadi e soprattutto di quegli Almoravidi il cui stesso nome (e la cui storia, come si dirà) li collega al marabuttismo, posto che “almoravidi” non è che l’italianizzazione di al-morabitun e quella dinastia trae origine proprio da un movimento mistico-militare che ha nella realtà del ribat il suo fulcro: una quarta via di sincretizzazione, ancor più tarda, è collegabile alle conquiste ed alle penetrazioni che le forze islamiche hanno realizzato direttamente nell’area saheliana e subsaheliana nelle regioni che oggi fanno parte degli stati del Senegal, del Mali, del Niger, del Ciad, della Nigeria, del Benin, del Ghana, ecc.

 

Marabutto come veicolo di trasmissione di benedizioni divine

Il fenomeno del “marabuttismo” consiste, nelle sue diverse accezioni, quindi, nel considerare eminente (in termini cristiano centrici diremmo “santo”) una determinata figura di pellegrino, maestro (sufi o meno), personaggio pio (uomo ma anche donna, come si vedrà), combattente per la fede dotato di particolare carica mistica e nel ritenere che tale sua eminenza produca come effetto che egli diviene in vita e più ancora in morte veicolo della trasmissione da parte di Dio della benedizione/protezione (baraka) sui fedeli in forma spaziale, ossia in modo fisso relativamente a chi risiede in una precisa area locale ove il personaggio vive e poi ove si trova la sua tomba, ma anche in forma acquisibile attraverso il pellegrinaggio presso di lui, da vivo, e soprattutto presso la sua tomba, ove compiere specifici rituali di vario genere.

La dimensione del ribat entra in questo contesto in vari modi, posto che il ribat fu in effetti il nome delle strutture che fin dall’VIII secolo sorsero sui confini (di volta in volta mutevoli) dei territori controllati dai Musulmani in Africa, in cui si riunivano volontari che assommavano in sé caratteristiche di guerrieri e di mistici, al punto dall’essere considerati in Occidente “monaci” (e dunque il ribat viene definito “monastero-fortezza”); l’importanza storica del ribat è immensa, se si pensa che da un lato fu la struttura che fece da centro propulsore sia della conquista musulmana della Sicilia, sia di quella delle regioni meridionali e centrali della Penisola Iberica, sia, secoli dopo, della fioritura del fenomeno della controffensiva islamica nei confronti della reconquista cattolica nella Penisola Iberica di cui furono protagonisti gli Almohadi e gli Almoravidi (di matrice marocchino-saheliana) e, ancora successivamente, della penetrazione musulmana nelle regioni saheliane, dall’altro costituì il modello addirittura per i cosiddetti “ordini militari” cristiani nella fase crociata.

 

Ancora sul Ribat

Il ribat incluse col tempo le tombe di alcuni di questi combattenti-mistici particolarmente illustri, verso i quali si sviluppavano pratiche cultuali-rituali, mentre altri fra loro videro sacralizzare i loro luoghi di sepoltura dove caddero in battaglia o dove finirono i loro giorni come veterani. Fuori del ribat, indipendentemente da esso o in collegamento con esso, si sviluppa intanto la rete dei luoghi sacralizzati inerenti altri tipi di personaggi “eminenti” islamici, le cui tombe, appunto, costituiscono i poli del fenomeno marabuttico; si può trattare di predicatori o di uomini pii, spesso di “compagni del Profeta” (in termini reali o immaginari e destoricizzati), di maestri sufi, di presunti discendenti del Profeta stesso (da cui sorge la figura dello sharif, con un ruolo anche di “tutela dell’ordine pubblico” che viene ripreso nella terminologia e nella realtà anglosassone durante le Crociate), di protagonisti già in vita di guarigioni straordinarie, e perfino di prassi divinatorie degne delle antiche Pizie dell’età classica mediterranea come delle figure rituali subsahariane e fra loro vi sono, come si è detto, sia uomini che donne, tanto che i culti marabuttici sono tuttora culti talora maschili, talora femminili, talora misti.

 

Le tombe, sacralizzate, dei marabutti

Secondo un metodo spesso usato nella lingua araba, e tanto più nelle sue versioni locali semidialettali, il termine marabut per estensione non indica solo le figure per così dire “santificate”, ma anche i luoghi stessi, di norma le loro tombe o quel che si ritiene tale, sacralizzati, che assumono presto una forma fissa, basata sull’abbinamento di una semplice struttura cubica con una cupola semisferica o tendente alla semisfera, che in Arabo viene detta quba e di cui abbiamo un esempio nella Kubba di Palermo; più estensivamente, il termine viene perfino usato per indicare qualsiasi luogo sacralizzato (sorgente, cumulo di sassi, albero rinsecchito, talora perfino grotta, ecc.) associato in diverso modo alla vita e/o soprattutto alla morte di una figura eminente caratterizzata in modo marabuttico. I poteri attribuiti ai personaggi marabut variano di epoca in epoca e di regione in regione, come variano del resto le forme di ritualità e di culto ad essi connessi e le forme architettonico-spaziali che i luoghi di culto vedono fiorire, tanto che mentre in alcuni casi si resta a livelli per così dire “elementari” (in effetti a più alto tasso di contenuto derivante da tradizioni sub sahariane), del tipo di un infiocchettamento dei rami di un albero secco sacralizzato, o al modello della piccola struttura cubica con cupoletta, in altri casi nascono veri e propri santuari, che assumono un ruolo culturale, sociale, ma anche, spesso, politico fondamentale e che diventano centri di fioritura e poi di diffusione (talora con un carattere anche di ribat) di confraternite (non necessariamente sufiche ma neppure necessariamente aliene da elementi sufici!) ed addirittura di movimenti politico-militari fino al caso degli Almoravidi che si trasformano in dinastia.

La gestione delle strutture, specie delle più complesse, è affidata in genere a confraternite che hanno come nucleo centrale i o le discendenti reali o supposti/e della figura di riferimento sacralizzata, a formare una comunità di “eletti”, di persone che ereditano il potere di dispensare la baraka o di guidare correttamente le forme rituali per ottenerla da parte degli altri fedeli, abitanti del luogo e/o pellegrini, e che quindi configurano una realtà di cui la figura marabuttica di riferimento diventa l’antenato mitico (che vede anteporre al suo nome Sidi se uomo, Lalla se donna) in pieno stile africano sub sahariano; la denominazione della figura diventa a questo punto anche denominazione toponomastica del luogo, sia esso un quartiere, un villaggio, un centro rituale, ecc., come nei casi, ben noti, tunisini di Sidi Bou Said e di Lalla Manoubia, in quello libico di Sidi El Barrani, ecc. .

 

Conclusioni

In molti casi il sistema cultuale-rituale mantiene una caratterizzazione locale, con una correlazione stretta, di “patronaggio” fra la figura marabuttica, il luogo della sua reale o presunta sepoltura e la piccola comunità, che può essere di villaggio, ad esempio sui monti dell’Atlante marocchino, o anche di corporazione di artigiani o di settore di mercato, come nel suq di Tunisi. In altri si assiste a grandiosi pellegrinaggi ma senza un sistema a rete di siti collegati fra loro e soggetti ad una gerarchia ad ampia scala, in altri casi ancora invece tale organizzazione e gerarchizzazione è presente; è il caso della grande confraternita dei Muridi del Senegal, una delle più potenti ed estese confraternite marabuttiche africane, che ha proiezioni anche nell’emigrazione anche sulla base del fatto che sviluppa attività socioassistenziali e di microcredito verso i suoi adepti, non solo in Senegal, ma anche nelle periferie delle città europee.

In Tunisia, in Libia ed altrove nel Maghreb, le strutture che si sviluppano in forma di santuario attorno alla sacralizzazione marabuttica di un luogo sono connotate dal termine zaouia e sono sede di un insieme di attività rituali-cultuali e perfino commerciali diversificate e ricchissime, che hanno e più ancora hanno avuto implicazioni anche di ordine socioeconomico e perfino politico, svolgendo ad esempio anche un ruolo (nel caso libico) nella lotta contro il colonialismo (italiano) e più di recente rappresentando in Tunisia e Marocco, col loro forte radicamento popolare, una forma di argine anche nell’ambito delle formazioni politiche meno “laiciste” all’affermarsi delle correnti più radicali dell’Islam e soprattutto dell’intolleranza feroce di matrice wahhabita.

Vedremo in seguito due aspetti assai interessanti presenti nel “marabuttismo”: uno consiste nel ruolo eminente delle donne sia tra le figure marabuttiche di riferimento, sia tra le figure che gestiscono i centri cultuali-rituali, sia fra gli adepti locali, sia tra i pellegrini e della dimensione femminile nelle pratiche e nelle simbologie della cultualità-ritualità marabuttica: un ruolo che anche in questo caso confligge nettamente con le concezioni di quel Wahabbismo con cui gli Occidentali amano flirtare da decenni, senza ammettere che esso è una delle matrici di larga parte dei tanto deprecati “terrorismi islamici. E qui sarebbe appena il caso di ricordare che nella tradizione coranica, la prima persona che venne convertita dalla predicazione del Profeta Mohammed fu una donna, la sua prima moglie (più grande di lui e premorta a lui) Khadija, a riprova che l’Islam non era così sessuofobo come certi suoi apparenti “difensori” attuali estremisti vorrebbero far credere…. Un altro elemento consiste nel ruolo esplicito dei Neri nel “marabuttismo”, non solo come veicolo umano storico delle sincretizzazioni dall’africa sub sahariana, ma anche come elemento simbolico di riferimento, in quelli che vengono definiti “culti bilaliani” perché si rifanno alla figura di Bilal, il liberto nero del Profeta Mohammed che fu la seconda persiona convertita dal Profeta Mohammed (dunque i primi convertiti furono una donna ed un Nero, non i “purissimi arabi di sesso maschile” cari all’androcentrismo integralistico arabo attuale….). Prima di continuare sul “marabuttismo” e dato che il Wahabbismo è stato più volte nominato, è il caso di accennare brevemente a cosa esso sia. Il wahabismo non è un movimento tradizionale islamico che affondi le radici nell’antichità, come invece avviene proprio per i movimenti sufici, marabuttici, ecc., ma un movimento recente, nato ad opera di Muhammad ibn Abd al-Wahabb (1703-1792), che peregrinò a lungo fra la natia Arabia, Bassora, Baghdad, Il Cairo e l’Iran, elaborando una dottrina rigoristica di applicazione letterale della legge islamica (sharia) che considerava “apostata” ogni tendenza esoterica, il sufismo, il marabuttismo e ogni altro elemento che potesse apparire come messa in discussione dell’unicità di Dio e del culto ad esso dovuto. Nella galassia dei sistemi di pensiero islamico il Wahabbismo sarebbe restato una delle infinite correnti minoritarie prive di reale impatto storico se nel 1744 non si fosse realizzato un patto fra Muhammad ibn Abd al-Wahabb e l’Emiro Muhammad bin Saoud, peraltro subito avversato dall’Impero Ottomano, all’epoca possessore della Penisola Arabica, che finì per sconfiggere i seguaci dei Saoud e dei Wahabbiti nel 1815 e ancora nel 1816, costringendone i superstiti alla fuga, fino alla rinascita di un micro-stato saudita-wahabbita nel 1824 a Riyad, distrutto nuovamente dagli Ottomani nel 1892. Fu a questo punto che i Britannici, in funzione anti-Ottomana, appoggiarono strumentalmente il wahabismo e il clan Saoud, permettendo al binomio saudita-wahabbita di assumere gradualmente, con una serie di campagne militari, il controllo della Penisola Arabica fra il 1902 e il 1927 e proclamare, sotto la protezione di fatto britannica, il regno dell’Arabia Saudita nel 1932, adottando il wahabismo come unica versione ammessa dell’Islam. Un regno che mentre praticava la feroce repressione contro ogni tendenza islamica considerata “eterodossa” (“apostata”) distruggendone anche ogni struttura, non aveva problemi a farsi appoggiare fin dalla nascita da “miscredenti” come i britannici e successivamente dagli USA, in nome del nel frattempo scoperto petrolio….

 

I libri di Silvio Marconi

 

Uno studio che, lungi dall’avere un obiettivo “enciclopedico” o di minuziosa analisi storica, vuole evidenziare quelle connessioni e correlazioni – tradizionalmente taciute e rimosse – tra i fenomeni ed i processi che portarono alla crisi ed al crollo dell’Impero Romano d’Occidente e quelli operanti in un’Asia la cui complessa storia viene, tuttora, sottovalutata.
Quando una farfalla batte le ali in Cina si sofferma sul ruolo che, nella crisi e nel crollo dell’Impero Romano d’Occidente, ebbero tanto la Persia quanto, indirettamente, la Cina, dimostrando come il pregiudizio etnocentrico che ancora permea la formazione, la divulgazione e la costruzione dell’immaginario occidentale sia un pernicioso ostacolo a una comprensione di ben più ampio respiro e alla lezione metodologica che ne se ne può trarre.
In questa prospettiva, il riconoscimento di una molteplicità di poli e fattori transculturali è la precondizione per affrontare qualsiasi problematica: storica, politica, economica o strategica.
Una precondizione troppo spesso, volutamente, ignorata da una cultura occidentale che, a differenza di quelle orientali, ha rifiutato la logica olistica privilegiando un approccio molto settoriale.

 

Silvio Marconi – ingegnere, antropologo, operatore di Cooperazione allo sviluppo, Educazione allo Sviluppo e Intercultura – fa ricerca, da anni, nell’ambito dell’antropologia storica e dei sincretismi culturali. Ha pubblicato, al riguardo: Congo Lucumì (EuRoma, Roma, 1996), Parole e versi tra zagare e rais (ArciSicilia, Palermo, 1997), Il Giardino Paradiso (I Versanti, Roma, 2000), Banditi e banditori (Manni, Lecce, 2000), Fichi e frutti del sicomoro (Edizioni Croce, Roma, 2001), Reti Mediterranee (Gamberetti, Roma, 2002), Dietro la tammurriata nera (Aramiré, Lecce, 2003), Il nemico che non c’è (Dell’Albero/COME, Milano, 2006), Francesco sufi (Edizioni Croce, Roma, 2008), Donbass. I neri fili della memoria rimossa (Edizioni Croce, Roma, 2016).

Prezzo di copertina: 18 euro Prezzo effettivo: 15.5 euro