La Comunità Ahmadiyya vista da vicino

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La Comunità Ahmadiyya vista da vicino

Di seguito la trascrizione dell’intervento La Comunità Ahmadiyya vista da vicino alla conferenza organizzata dal Centro Studi LIREC, nel corso del Congresso Internazionale della European Academy of Religion (Bologna, 5-8 Marzo 2018; panel n. 63) , sul Movimento Ahmadiyya.

La conferenza si è svolta il 6 marzo 2018, dalle ore 10.30 alle ore 12.30.

 

Vivo buona parte del mio tempo in India da circa 13 anni, a Varanasi per la precisione.

Mi sono interessato a diverse tematiche della cultura indiana ed ho avuto modo di scrivere al riguardo. In particolare un filone, controverso, di studi che mi ha sempre affascinato è quello della possibile permanenza di Gesù in India.

Ricordo ne venni per la prima volta a conoscenza mentre scrivevo la mia tesi di laurea su Osho Rajneesh ed i neosannyasin. In particolare, leggendo il controverso testo La bibbia di Rajneesh dove viene presentata l’ipotesi secondo cui Gesù avrebbe vissuto in India negli anni della formazione per poi ritornarci dopo la crocifissione, cui sarebbe sopravvissuto.

Un’ipotesi senz’altro provocatoria che tuttavia, pensai, non mancando di una forte suggestione avrebbe anche potuto contribuire a far riavvicinare molte persone laiche o addirittura anticlericali alla figura di Gesù.

Su di me ebbe sicuramente questo effetto (prima di lui lo ebbe il Gesù “rivoluzionario” de La buona novella di Fabrizio de André) e mi iniziai ad affezionare ad un Gesù viaggiatore, un carismatico che avrebbe raggiunto l’India raccogliendo aneddoti ed informazioni nell’esperanto dei caravanserragli, davanti a fuochi di bivacco, sedendo assieme a mercanti di provenienze diverse con cui condivideva, assieme al suo fagotto, il viaggio – immagini che sono state ben rese dal bel film di Alessandro d’Alatri I giardini dell’Eden –.

In altre parole, mi affezionai ad una versione della vita di Gesù che la rendesse, in certa misura, più vicina alla mia sensibilità ed alla mia ricerca.

 

Divenni dunque particolarmente recettivo per tutto quanto potesse fornirmi ulteriori elementi al riguardo e, nel tempo, mi capitarono tra le mani un paio di libri affascinanti: Sulle tracce di Gesù l’esseno, del professore kashmiro Maria Fida Hassnain e – trasferitomi a  a Varanasi, a partire dal 2005 – Jesus lived in India, di Holger Kersten (tradotto in italiano con il titolo: La vita di Gesù in India).

[Nella foto il quadro, di Frank Wesley, Jesus in Varanasi]

 

Dalla lettura di questi testi iniziai ad avere qualche vaga nozione della Comunità Islamica Ahmadiyya, il cui fondatore, Mirza Ghulam Ahmad, ha dedicato molto tempo – ed un libro il cui titolo non potrebbe essere più esplicito: Gesù in India – all’ipotesi secondo cui Gesù, sopravvissuto alla crocifissione, lasciò in segreto la Palestina per predicare alle disperse tribù di Israele, nei territori degli attuali Afghanistan e Kashmir.

In particolare, nella prospettiva del fondatore della Comunità Ahmadiyya, Gesù si sarebbe fermato a lungo in Kashmir dove sarebbe poi morto in età molto avanzata e dove, ancora oggi, è possibile visitare la tomba di un profeta misterioso, orientata alla tradizionale maniera ebraica, in un quartiere della città vecchia di Srinagar.

Il profeta in questione, Yuz Asaph, stando ad una ricca e fascinosa tradizione popolare, ad alcuni documenti storici kashmiri e, di nuovo, a parere di Mirza Ghulam Ahmad, altri non sarebbe che Gesù, il cui nome avrebbe subito diverse alterazioni in Oriente come in Occidente.

Sappiamo difatti che il suo nome ebraico era Yehoshua ben Yosef, da cui, ad occidente della palestina, sarebbero poi derivati Iesus in latino, Jésus in francese, Jesus in inglese, Gesù in italiano, eccetera.

Ad oriente della Palestina dallo stesso nome ebraico sarebbero derivati Isa/Issa, nel mondo arabo (nello stesso Corano si parla di Gesù chiamandolo Isa), Yuz, Yuzu in Persia, Isha in India.

Nel 2009 faccio il mio primo viaggio a Srinagar e ho modo di visitare la tomba di Yuz Asaph, un mausoleo conosciuto con il nome di Rozabal. In quella circostanza ho modo di contattare il Professor Maria Fida Hassnain (mancato nel luglio 2016), di cui avevo letto il libro Sulle tracce di Gesù l’esseno.

Il professor Hassnain lo avrei rivisto qualche altra volta alcuni anni dopo, avendo deciso, io stesso, di scrivere un testo sui possibili anni di Gesù in India.

In particolare nel settembre del 2014, quando il Kashmir conobbe una delle peggiori alluvioni degli ultimi decenni, cui ebbi la fortuna di scampare per poco, lasciando il paese un paio di giorni prima che la pioggia interminabile si trasformasse in un’autentica, drammatica calamità naturale.

Il professore fu molto felice di rivedermi, dopo circa 5 anni e, naturalmente, fu contento del progetto editoriale.

Fortunatamente con lui c’era un suo allievo, cui mi affidò per una nuova visita a Rozabal e, poi, per andare alla Mission House della Comunità Ahmadiyya di Srinagar, il cui nome, come già accennato, non mi era nuovo.

Tanto venni accolto con freddezza, direi quasi con ostilità, dal custode del mausoleo di Rozabal quanto, invece, venni accolto con un inaspettato calore dagli ahmadiyya.

Cito dal mio testo: Gesù in India?

 

«Dal grande cortile della loro proprietà mi trovo presto in una stanza privata, particolarmente curata e con un dolce profumo da ambiente, peculiare di molti interni musulmani.

Un paio di uomini relativamente giovani mi accolgono, non senza mia sorpresa, con un abbraccio a testa. Quando dico loro il motivo della mia visita si dispongono ancora meglio nei miei riguardi».

[…]

“Sei finito nel posto giusto”, mi dice Aijaz, medico chirurgo e membro della comunità, “noi siamo quelli maggiormente interessati alla permanenza di Gesù in India e siamo a tua disposizione!”».

 

Aijaz mi propone di spostare il mio volo di rientro per Varanasi e di andare, invece, ad Amritsar da dove non mi sarebbe difficile raggiungere Qadian, la città santa degli ahmadiyya (in cui nacque e visse Mirza Ghulam Ahmad). Lì, mi dice, verrei ospitato gratuitamente e potrei consultare la biblioteca della Comunità, avendo a disposizione qualcuno per aiutarmi nelle ricerche.

Non posso né intendo spostare il volo di rientro ma tanta disponibilità non manca di sorprendermi.

Passano circa due mesi. Non manca, a Varanasi, chi mi mette in guardia, suggerendomi di riflettere prima di accettare un invito così caloroso. Contro gli ahmadiyya è stata, infatti, emessa una fatwa e, dunque, andare nel loro quartier generale potrebbe essere rischioso.

Non ho dubbi, sento che declinare un invito del genere sia rinnegare l’attitudine alla ricerca che, da molti anni, sto coltivando, sento che quanto mi ha detto Aijaz sia vero e che meriti la mia piena fiducia.

Aijaz stesso, del resto, mi da i suoi contatti, dicendomi che lo potrò disturbare in qualunque momento per essere facilitato nell’organizzazione del mio soggiorno a Qadian.

A metà dicembre 2014 sono pronto per partire.

 

Cito di nuovo da Gesù in India? strutturato, in parte, come un diario di viaggio:

 

«Giungo a Qadian a ora tarda. Sono circa le 21.00 e le strade si sono quasi integralmente svuotate. Echeggiano rumori di chiusura di negozi. La stazione degli autobus è un piazzale sterrato e desolato dove il vento fa capriolare cartacce e spazzatura leggera. Non vedo taxi, né tuk tuk, né rickshaw. Aijaz mi ha telefonato prima che arrivassi in città, per accertarsi che fossi sulla buona strada. Il treno da Varanasi ad Amritsar è arrivato con un congruo ritardo e dalla città santa dei sikh ci sono volute un paio di ore per raggiungere Qadian. Ho tuttavia un altro numero di telefono, di Nasim Khan. Lo utilizzo. Nel momento in cui lui sente che non ci sono mezzi di trasporto nelle immediate vicinanze mi chiede di passargli un locale. C’è una piccola officina a due passi da me. Chiedo al ragazzo, che si sta organizzando per la chiusura, di parlare con il mio interlocutore telefonico. Lui è ben contento di farlo.

Segue un breve scambio di battute poi il ragazzo, ridandomi il cellulare, mi dice: “ti porta mio fratello in motocicletta, non sei lontano!”.

Ringrazio e salgo sulla motocicletta “salvifica”.

Il guidatore si disimpegna per vicoli stretti, a tratti angusti. La cittadina mi si presenta subito come piuttosto accorpata, ricordando, pur alla lontana, un nostro borgo cinquecentesco di pianura.

Raggiungiamo in fretta il quartier generale della Comunità Ahmadiyya. Anche questo si presenta piuttosto compatto e squadrato, con un’ampia corte centrale, due piani di foresteria e molte stanze affiancate le une alle altre su spartani ballatoi.

Chiedo nuovamente di Nasim Khan ma lui non è in loco. Vengo piuttosto invitato a entrare in un ufficio immediatamente vicino alla cancellata d’ingresso. Lì un uomo di mezza età, che ne è evidentemente il responsabile, mi invita ad accomodarmi.

Debbo aspettare un quarto d’ora-venti minuti prima che si possa dedicare a me, sta indolentemente terminando di discutere con un’altra persona. Si sta avvicinando il Jalsa Salana, l’incontro annuale degli ahmadiyya e ― ero stato avvertito ― c’è un certo fermento.

Sono piuttosto stanco, vagamente infreddolito, per quanto nell’ufficio possa godere del tenue tepore di una stufa elettrica. Vengo poi sollecitato a raggiungere il vicino, intimo refettorio.

“Ora mangia”, mi dice il receptionist, “la stanza è già pronta e mettiti completamente a tuo agio, sei arrivato a casa!”.

“Lo so!”, rispondo istintivamente.

[…]

L’indomani sono nell’ufficio di Nasim Khan, un po’ discosto dalla foresteria in cui sono alloggiato. Mi rendo conto che il quartier generale della comunità è distribuito in diversi edifici, il principale dei quali è la piccola cittadella fortificata della famiglia di Mirza Ghulam Ahmad, dove c’è anche una grande moschea ed un alto minareto bianco. Nella cittadella c’è anche una piccola banca, che non dà e non richiede interessi ai propri correntisti.

Nasim Khan è il Director of Internal Affairs della Comunità e mi accoglie con calore. Sa del mio progetto editoriale e mi dice che intende affiancarmi un ragazzo, per assistenza.

Questo arriva dopo pochi minuti. Si chiama Zabi Ullah, ha ventitre anni, è un ingegnere informatico e sarà una sorta di sobrio angelo custode nel corso della mia permanenza a Qadian.

Ci mettiamo presto al lavoro. Mi porta nella biblioteca della comunità, poi in un altro complesso, in città, dove gli ahmadiyya hanno la propria casa editrice, il proprio studio di registrazione, sale per conferenze e incontri e altro ancora. Mi vengono regalate alcune copie di libri attinenti alla mia ricerca. Mi viene regalata una copia del Corano in italiano. Uno dei progetti culturali degli ahmadiyya, infatti, è stata la traduzione del libro sacro dell’Islam in settantadue lingue diverse, tra cui la lingua Yiddish.

La mia permanenza dagli ahmadiyya si rivelerà una full immersion nel loro essere musulmani e, in misura minore, nell’Islam in generale.

[…]

Le giornate a Qadian trascorreranno in modo intenso ― talora punteggiate di problemi pratici ― e disvelatore.

Avrò modo di apprezzare la versatile signorilità dei miei ospiti, scoprirò storie di antiche aristocrazie, angolazioni inedite sul nostro mondo cristiano e il suo fondatore, modi diversi di essere ugualmente ahmadiyya, relazionandomi, nel corso del Jalsa Salana, con convenuti kirghisi, nigeriani, palestinesi, indonesiani e molti pakistani».

 

Ritorno a Varanasi dopo quasi venti giorni trascorsi a Qadian, mi sento stranamente turbato. Sento di aver scoperto qualcosa di importante, quasi come fossi reduce da un viaggio nella tanto attesa era messianica, in cui i rapporti umani sono come dovrebbero essere, vissuti all’impronta della cooperazione e della fratellanza.

Mi rendo conto quanto un atteggiamento di apertura e di autentica disponibilità nei confronti dell’altro fosse la norma a Qadian e, allo stesso tempo, come sia qualcosa di eccezionale ed eccezionalmente prezioso nel momento del ritorno nel “mondo ordinario”.

Ricordo, ad esempio, che non ho avuto modo di sapere quanto costasse prendere un rickshaw a Qadian perché ogni volta che dovevo muovermi in città, qualcuno tra gli ahmadiyya (spesso il mio angelo custode Zabi Ullah, su cui ho davvero potuto fare affidamento per qualunque bisogno pratico) pretendeva di accompagnarmi in motocicletta.

Ricordo, a ridosso del Jalsa Salana, mi sono ritrovato involontariamente coinvolto in quella che credo possa essere tranquillamente definita un’agape fraterna.

In uno dei rari momenti in cui ero da solo (la premura degli ahmadiyya, difatti, era costante, facevano in modo che non mi mancasse mai nulla e dunque ero generalmente accompagnato da qualcuno) mi ero fermato in un ristorante della città per mangiare del pollo. Ricordo che mi sorpresi per il fatto che mi avevano servito un piatto eccessivamente abbondante. Di primo acchito non mi resi conto che, in realtà, in quel ristorante gestito da ahmadiyya, non si concepiva nemmeno che un piatto fosse per una sola persona. I piatti erano concepiti per “gruppi di fratelli”. Io stentai a finire il mio e poi si sedettero vicino a me alcuni uomini indonesiani, venuti per partecipare al Jalsa Salana. Ciascuno di loro si serviva da alcuni piatti collettivi e mi invitarono a fare lo stesso. Io ringraziai, dicendo loro che avevo già mangiato e loro insistevano a invitarmi a servirmi, senza alcuna timidezza, dato che il cibo che loro avevano ordinato era per tutti coloro che si trovavano lì, in quel momento e che se fosse servito se ne sarebbe, semplicemente, ordinato dell’altro.

Di ritorno a Varanasi, rivivendo alcune esperienze fatte a Qadian, sento di aver scoperto un modo diverso, originale, di essere profondamente cristiani e questo mi emoziona.

Decido di approfondire i miei rapporti con la Comunità Ahmadiyya e, per cominciare, di scrivere un articolo per una testata con cui collaboro in quel periodo: Corriere Asia.

L’articolo Comunità Ahmadiyya; un volto non violento dell’Islam viene apprezzato e commentato positivamente. Poco dopo accade quel che speravo accadesse: entro in contatto con la comunità in Italia.

Ne incontro l’Imam: Ataul Wasih Tariq ed il presidente della comunità a Roma: Mohammad Afzal.

Da allora ho partecipato a diversi Jalsa Salana in Europa: due volte in Italia, due volte a Londra ed una volta in Germania, ritrovando costantemente una peculiare fragranza di genuina e mite affabilità comunitaria, la stessa che permea il cruciale impegno nel sociale di Humanity First, l’organizzazione non governativa degli ahmadiyya attiva soprattutto in Africa.

E’ nata una bella amicizia ed una collaborazione produttiva.

Sono venuto maturando la convinzione che nella prospettiva di una equilibrata – prima di tutto pacifica – società plurale, la Comunità Ahmadiyya possa essere uno dei principali protagonisti della sua realizzazione.

Citando dal mio articolo Comunità Ahmadiyya, per un Islam pacifico e solidale:

 

«Non manca chi sostiene gli ahmadi possano essere, senza dubbio, una realtà islamica con cui intraprendere un cammino di dialogo. In Italia, per fare solo un esempio, un buon dialogo interreligioso ha luogo, da anni, tra membri della comunità (coinvolti anche nell’organizzazione Religions for Peace) ed il movimento dei Focolari e non manca un gruppo del Parlamento europeo di “Amici della Comunità Islamica Ahmadiyya”».

 

In conclusione, auspico davvero che la Comunità Ahmadiyya possa contribuire ad ispirare un numero crescente di persone − al di là di ogni, specifica, appartenenza religiosa – a vivere una dimensione di autentica spiritualità e solidarietà interumana.

Credo difatti sia oggi difficile immaginare, nel cosiddetto villaggio globale, che tutti possano convertirsi ad una religione o ad un’altra, che si possa diventare tutti cristiani, musulmani, buddhisti o quant’altro.

Da persona religiosa e, tuttavia, laica, credo sia piuttosto necessario imparare a convivere nella condivisione e nel rispetto di alcuni valori essenziali, tra i quali non possiamo non menzionare una maggiore giustizia sociale, come sottolinea ripetutamente il quinto Califfo della Comunità Ahmadiyya − Mirza Masroor Ahmad – in diversi discorsi tenuti in prestigiose istituzioni internazionali (da Capitol Hill al Parlamento britannico a quello neozelandese) e raccolti nel testo, tradotto in diverse lingue, La crisi mondiale e la via per la pace.

Credo dunque la proposta ahmadiyya di un Islam pacifico e solidale possa sicuramente offrire un contributo cruciale per riuscire a camminare, tutti, in questa direzione.

Grazie!

Manuel Olivares (www.viverealtrimenti.com)