Tuscia mistica, parte quarta

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Tuscia mistica, parte quarta

Abbiamo completato l’ultimo post di questa serie focalizzandoci sull’eremo di Castel Sant’Elia che sarebbe poi divenuto, dopo tante, alterne, vicende il Santuario di Santa Maria ad Rupes.

Con questo post ripartiamo da quel luogo di grande suggestione, sicuramente uno dei cenobi più antichi d’Europa, non molto distante dall’Umbria dell’Abbazia di Sant’Eutizio e di San Benedetto da Norcia.

Riannodiamo le fila del nostro racconto partendo dalla figura che ancora oggi compone il nome del paese di circa duemila abitanti che si affaccia sulla Valle Suppentonia: Sant’Elia!

Per leggere Tuscia mistica prima parte, cliccare qui, Tuscia mistica seconda parte, cliccare qui, Tuscia mistica terza parte, cliccare qui e che la lettura vi sia propizia…

Manuel Olivares

 

 

Un “selvatico asceta”

 

Di Elia si parla diffusamente nei due libri dei Re, nell’Antico Testamento, dove viene presentato come “un uomo peloso” con i fianchi cinti da una cintura di cuoio (che, secondo alcune leggende ebraiche, era stata ricavata dalla pelle del capro sacrificato da Abramo). Dunque come una sorta di “selvatico asceta”.

Tra le imprese straordinarie che nei due testi veterotestamentari gli vengono attribuite si annoverano la resurrezione del figlio della vedova di Sarepta, a sud di Sidone (di cui era ospite durante una carestia), la sconfitta degli adoratori del dio Baal – il tradizionale dio semitico della tempesta – ovvero la riaffermazione del monoteismo assoluto (essendo rimasto, prima del prodigio, l’ultimo fedele al Dio di Abramo) e l’aver fatto piovere miracolosamente in periodo di siccità.

Merita menzionare che la “crociata” compiuta da Elia contro gli adoratori di Baal, dopo la paganizzazione di Israele ad opera della regina Gezabele, viene evidenziata anche nel Corano.

Cito:

 

«E così anche Elia fu uno degli inviati (mursalina), allorché disse al suo popolo: “Non temete voi Dio? Invocate voi Baal e trascurate il migliore dei Creatori? È Dio il vostro Signore, e il Signore dei padri vostri antichi!” Ma essi lo smentirono, e saran consegnati al Castigo!
Eccetto i servi di Dio, puri. E la sua lode perpetuammo tra i posteri: “Pace su Elia!”.
Perché così Noi compensiamo i buoni: ché ei fu di certo tra i nostri servi credenti». (XXXVII, 123-132)

 

La “crociata” contro gli adoratori di Baal comportò dure persecuzioni per Elia che, dunque, si rifugiò nel deserto sinaitico. Sullo stesso Monte Sinai riceverà una rivelazione divina.

 

«Dio non gli appare né nel vento gagliardo che spacca le rocce, né nel terremoto che sommuove il deserto e neppure nelle folgori di una tempesta. Il Signore si presenta, invece, come dice il testo ebraico, in una qòl demamah daqqah, che letteralmente significa “una voce di silenzio sottile” (19, 12). Elia, che aveva pensato sempre a un Dio potente e battagliero, deve imparare che il mistero divino si annida anche nella quiete, nel silenzio, nella pace».

(http://www.carmelovocazioni.it/il-profeta-elia/)

 

Facile dunque ravvisare in Elia una sorta di archetipo della scelta monastica, il primo monaco ovvero il Padre di tutto il monachesimo che ha proprio nel deserto il suo terreno (paradossalmente, direi) di “fioritura”. 

 

«Il luogo sacro per Elia non è più al di fuori, come il tempio di Gerusalemme: il suo santuario è dentro e viene percorso interiormente; è un pellegrinaggio interiore per incontrare il Dio vivo e vero. Leggendo il testo, illuminati dall’esperienza cristiana, ci si trova bene in sintonia con la parola stessa di Gesù: “Né sul Garizim né a Gerusalemme adorerete Dio, ma il Padre si adora in spirito e verità” (Gv 4, 20-24)».

(Ibidem)

 

Non meno straordinario fu l’epilogo della vicenda umana del Profeta Elia, descritto nel secondo libro dei Re, in cui si racconta che, poco distante da Gerico e mentre era in compagnia del discepolo Eliseo, venne rapito in cielo, da un turbine, su di un carro di fuoco, guidato da cavalli di fuoco.

Dunque Elia non avrebbe conosciuto la morte e, concedendoci una breve ma affascinante divagazione, questo lo accosta a due figure di cui si parla nelle tradizioni giudaica, cristiana ed islamica.

La prima è quella di Enoch, di cui si fa menzione, tra l’altro, nella Lettera agli Ebrei, in particolare in un passaggio che citiamo brevemente:

 

«Per fede Enoch fu trasportato via, in modo da non vedere la morte; e non lo si trovò più, perché Dio lo aveva portato via. Prima infatti di essere trasportato via, ricevette la testimonianza di essere stato gradito a Dio».

 

La seconda è la figura di ʿĪsā ibn Maryam nel Corano.

ʿĪsā ibn Maryam è il nome arabo di Gesù di Nazareth, la cui ascensione (tanto nella versione cristiana quanto in quella, come vedremo a breve, islamica) è stata, possiamo dire, anticipata da quella di Elia  (cliccare qui per avere maggiori informazioni su Gesù nell’Islam).

Difatti, nel Corano – in cui viene menzionato in 25 versi e, in sei casi, con il titolo di Messia – Gesù, ovvero  ʿĪsā ibn Maryam, non è morto sulla croce, piuttosto Dio lo ha “elevato a sé”.

A questo riguardo merita citare i versi 157-158 della quarta Sura coranica:

 

157. e dissero: «Abbiamo ucciso il Messia Gesù figlio di Maria, il Messaggero di Allah!». Invece non l’hanno né ucciso né crocifisso, ma così parve loro. Coloro che sono in discordia a questo proposito, restano nel dubbio: non hanno altra scienza e non seguono altro che la congettura. Per certo non lo hanno ucciso

158. ma Allah lo ha elevato fino a Sé. Allah è eccelso, saggio.

 

Potremmo dunque presentare Enoch, Elia ed ʿĪsā ibn Maryam come una sorta di “triade sapienziale” che, avendo qui come ampia prospettiva di riferimento la tradizione abramica (intesa come espressione della continuità tra le tradizioni ebraica, cristiana ed islamica), non conobbero la morte.

Curiosa la rielaborazione popolare – di cui dà conto Giuseppe Gioacchino Belli nel suo sonetto La fin der Monno – delle figure di Enoch ed Elia che si era sviluppata a Roma.
Secondo l’antica credenza folclorica romana, ispirata al capitolo 11 dell’Apocalisse, Enoch ed Elia sarebbero usciti da un buco della Basilica di San Paolo fuori le Mura poco prima della fine del mondo per opporsi all’Anticristo.
In realtà i due si erano ibridati in una terza figura che ne riassumeva le caratteristiche: Er Nocchilia:

 

«Poi pe ccombatte co sta bbrutta arpia tornerà da la bbùscia de San Pavolo doppo tanti mil’anni er Nocchilia».

 

In ambito islamico il motivo apocalittico assume un’altra forma coinvolgendo la terza figura della triade menzionata: ʿĪsā ibn Maryam che tornerà sulla terra dopo il Mahdi.

Secondo la tradizione messianica islamica ʿĪsā ibn Maryam apparirà presso il minareto della Grande Moschea degli Omayyadi a Damasco, la più importante della Siria.

Il minareto in questione è difatti intitolato proprio a Gesù: manār ʿĪsà.

ʿĪsā ibn Maryam sconfiggerà il Dajjāl, il mentitore (potremmo dire l’equivalente islamico dell’Anticristo) per poi annunciare lo yawm al-dīn: il giorno del giudizio.

Per questa ragione, merita sottolinearlo, Gesù oltre ad essere il più importante profeta dopo Muhammad ha una esplicita funzione messianica, nell’Islam.

Dopo aver brevemente zigzagato tra Antico e Nuovo Testamento e Corano, torniamo (felicemente, direi) a Castel Sant’Elia. 

 

 

Possibili origini del Cenobio di Castel Sant’Elia 

 

Come si può notare dalla foto, nello stemma di Castel Sant’Elia campeggia l’immagine del Profeta rapito in cielo su di un carro di fuoco.

Mi pregio ora di citare un importante testo storico, pubblicato nel 1885 (e disponibile su Internet Archive clicca qui per scaricarlo), di Giuseppe Tomassetti: Della campagna romana nel Medio Evo.

Castel Sant’Elia, nel Medio Evo, rientrava nel “circuito” della città di Roma. L’estensione a nord della città eterna, stando ad un testo dell’undicesimo secolo citato dall’autore, arrivava fino a Sutri; località di cui abbiamo abbondantemente parlato nella prima parte di questa ricerca, citandone, in particolare, la storica “Donazione“.

Scrive, dunque, Giuseppe Tomassetti a proposito di Castel Sant’Elia:

 

«La rinomanza è derivata a siffatto luogo da un antichissimo cenobio, del quale al presente non esistono avanzi, ma rimane la chiesa monumentale. Si può affermare che il monistero di S. Elia è uno dei più antichi d’Italia, e che il nome di questo profeta, cui era dedicata la chiesa, ci ricorda gli asceti primitivi anteriori alla istituzione del monachesimo occidentale, cioè a San Benedetto. Nel tempo della gran desolazione di Roma e della campagna, un sito solitario come quello non poteva non attrarre i fuggiaschi dal mondo.

E’ una rupe tagliata a picco, sotto la quale scorre un torrente che va poi ad unirsi nel Treia. Il cenobio fu eretto in un piano così limitato sul dorso della rupe stessa, che può dirsi quasi addossato a questa.

[…]

Fu sede di una delle cinque colonie benedettine vicine a Roma [le altre sarebbero state a Montecassino, al Soratte, a s.Andrea in flumine, presso Ponzano e in Cannetolo, presso Castelnuovo]; e forse fu il centro di altri cenobi dell’ordine di San Benedetto. Infatti si trova indicato nei documenti col nome di monasterium s. Benedicti de Nepe, ovvero s. Benedicti nepesini positum in Pentoma (Bullarium casinem, n. XXV e n. CXII)».

 

Viene naturalmente da chiedersi chi fossero gli asceti primitivi menzionati da Tomassetti e cui abbiamo accennato anche nel precedente post, da dove venissero prima che si affermasse nel loro cenobio la Regola di San Benedetto

Tentiamo di approfondire anche se, sicuramente, non è cosa facile, dato il lunghissimo periodo che ci separa dalla prima esperienza cenobitica nella Valle Suppentonia.

Può esserci d’aiuto quanto scrive Paolo Rossi nel suo articolo Movimento eremitico Umbro (l’Umbria confina con la Tuscia dunque quanto è avvenuto in quella regione, che del resto abbiamo già abbondantemente considerato, potrebbe essersi riverberato in quella che stiamo analizzando in questa ricerca).

Scrive Paolo Rossi:

 

«Circa l’anno 400, molti monaci, a motivo delle controversie teologiche, lasciarono l’Oriente e cercarono la pace nella “Regione Valeria”, che divenne la loro nuova patria e il campo dove esercitarono le loro virtù.

Celebre più d’ogni altro fu il Monteluco di Spoleto, pittoresca altura che anche i pagani circondavano di sacralità, e che separa, e nello stesso tempo si affaccia, sulla Valle del Nera e sulla Valle Spoletana.
Il monte meritò l’appellativo di “Tebaide dell’Umbria”, perché i suoi monaci ed eremiti emularono quelli della regione di Tebe nell’Egitto».

 

La stessa esperienza della Val Castoriana che abbiamo considerato nel post precedente si lega a quella di Monteluco (per avere maggiori informazioni al riguardo segnalo il seguente link) e della Tebaide dell’Umbria.

In un post sulle laure eremitiche umbre, Paolo Rossi è più preciso:

 

«Secondo la “Leggenda XII Sociorum” e i “Tre Leggendari” del sec. XII – provenienti dall’Abbazia di S. Brizio e da S. Felice di Narco (notizie poi elaborate negli “Annali” dal Baronio e dallo Iacobilli) -, ben 300 Siriani emigrarono da Antiochia di Cesarea in Umbria, al tempo di Teodorico (514).

Movente di sì forte emigrazione sarebbe stata la cruenta persecuzione dell’imperatore ariano Anastasio Dikoro (491-510) e del Vescovo eretico Severo di Antiochia.

I Siriani, giunti in Umbria con le loro famiglie, costituirono “làure” di liberi anacoreti a Monteluco, in Valnerina e nella Valle Castoriana.
Essi passarono gradualmente dalla vita anacoretica a quella cenobitica, imitando i grandi Santi egiziani.
Conoscevano e vivevano la “Regola di S. Pacomio”, la “Vita anastasiana di S. Antonio”, le “Vitae Patruum”, la “Regola di S. Basilio”».

 

Stando dunque a quanto scrive Paolo Rossi ci sarebbe stata più di una migrazione di asceti, probabilmente da aree dell’attuale Turchia (dove stava Antiochia di Cesarea, nell’area dell’attuale cittadina turca di Yalvaç) e della confinante Siria, alla volta dell’Umbria.

Del resto già alla fine del quarto secolo vennero emanate, a difesa dell’ortodossia nicena, diverse leggi antiereticali la cui applicazione era prerogativa della stessa autorità imperiale.

Dunque a partire dall’Editto di Tessalonica, del 380, si diffuse un clima di intolleranza che fu particolarmente sofferto nella parte orientale dell’Impero dove abbondavano interpretazioni eterogenee del messaggio cristiano (dall’arianesimo al nestorianesimo per citare le due più conosciute) accanto a sette gnostiche e manichee.

Ci si potrebbe chiedere perché questa migrazione abbia avuto come “terra promessa” proprio l’Umbria.

Sicuramente una spiegazione potrebbe essere la relativa vicinanza con Roma, città santa del Cristianesimo e dunque, a partire proprio dal quarto secolo (con la fine delle persecuzioni dei cristiani), meta di pellegrinaggio (soprattutto sulle tombe dei due apostoli Pietro e Paolo).

 

Curiosamente diverse località della Tuscia, ricca a sua volta di eremi antichissimi che potrebbero a loro volta ricondursi alle migrazioni di cui sopra, si trovano non molto distanti dalla storica Via Flaminia che, collegando Roma a Rimini, attraversava ed attraversa ancora oggi l’Umbria.

 

Castel Sant’Elia, ad esempio, dista circa venti chilometri dalla Via Flaminia ed è dunque da tempi antichi ben collegata tanto a Roma quanto all’Umbria.

Un’altra storica strada, oramai da molto tempo in disuso, che attraversava alcuni territori della Tuscia, collegando Roma ai principali centri dell’Umbria, è la Via Amerina, cui abbiamo accennato nei post precedenti di questa serie.

Potremmo dunque dire che diverse aree della Tuscia, a metà strada tra la città santa del cristianesimo e la “terra promessa” di asceti ed eremiti di provenienza orientale, possano, a loro volta, aver facilmente rappresentato una meta di insediamento per i transfughi dall’Impero romano d’Oriente cui faceva cenno, riportando precise fonti storiche, Paolo Rossi. Il territorio tuscio, del resto, si prestava bene ad esperienze di natura eremitica: ricco di grotte naturali e di pietre tufacee facilmente lavorabili, di acqua e, particolare non trascurabile, non eccessivamente antropizzato.

 

 

In principio era la laura

 

A conferma di tutto quanto appena detto e tornando di nuovo a Castel Sant’Elia (che non è, tuttavia, come vedremo, un caso isolato nella Tuscia) sta la stessa struttura dell’antico cenobio. Come abbiamo già riportato nel post precedente, infatti, esso richiama le laure siro-palestinesi dove, accanto a diverse celle utilizzate individualmente dagli eremiti, vi erano spazi più grandi da utilizzarsi in comune per le celebrazioni liturgiche o come refettorio.

Per citare nuovamente la Dottoressa Elisabetta Scungio e la sua tesi di Dottorato in Storia dell’Arte: Arte e monachesimo benedettino nell’Alto Lazio dalle origini al XII secolo:

 

«[…] [Il modello della laura] risulta piuttosto verosimile anche nella valle Suppentonia dove accanto alle decine di minuscole ed essenziali celle scavate nel costone tufaceo, ve ne è una, quella detta di San Leonardo, articolata in più vani, di cui uno leggermente più vasto degli altri, dipinto e dotato di altare, dunque con inequivocabile funzione liturgica, atto ad accogliere le celebrazioni comuni; allo stesso modo, il cenobio che qui poi si verrà sviluppando, quello di Sant’Elia, potrebbe essere stato nient’altro che l’evoluzione di uno di questi spazi aggregativi per il culto e la liturgia».

 

La grotta di San Leonardo è stata presentata in dettaglio e con qualche fotografia nel post precedente. Maggiori foto della stessa grotta sono disponibili qui.

Restiamo tuttavia sul concetto di laura o lavra, particolarmente interessante nell’ambito di questa ricerca.

Per approfondirlo ci viene in aiuto un articolo accademico del Dott. Fotios Ioannidis, Lettore del Dipartimento di Teologia dell’Università Aristoteleion di Tessalonica, dal titolo: Il monachesimo primitivo in Siria e in Palestina (clicca qui per scaricarlo).

Per prima cosa il Dott. Ioannidis chiarisce che quando parla di Siria, in relazione al IV secolo (periodo in cui vi fiorì il “monachesimo primitivo”), si riferisce ad un’area più ampia di quella corrispondente alla, purtroppo martoriata, Siria attuale, comprendente grossomodo anche i territori dell’attuale Libano e parte della Mesopotamia (ovvero, approssimativamente, dell’attuale Iraq).

Caratteristica peculiare dell’antica chiesa sira, scrive Ioannidis, è una marcata tendenza all’ascesi ed al rigorismo al punto che molti storici ipotizzano un’influenza della tradizione ascetica hindu (elemento sicuramente interessante che meriterà di essere approfondito). 

Cito:

 

«Non possiamo non trovarci d’accordo coi moderni storici del movimento ascetico nei paesi di lingua sira, quando rifiutano decisamente la tradizione secondo la quale il monachesimo non sarebbe che un prodotto importato dall’Egitto. Quest’ultima tesi è ormai del tutto insostenibile. La più degna di credito tra le fonti storiche su cui pretendeva di basarsi, cioè la Vita Hilarionis di San Girolamo, afferma che Ilarione, discepolo del grande Antonio, fu il vero fondatore della vita monastica in quella comunità cristiana. La sua testimonianza tuttavia non è solida relativamente alle
origini dell’istituto monastico in Siria, anche se è attendibile per quanto riguarda la fase dello sviluppo.
Teodoreto di Cirro è un autore di molto maggiore affidamento: conosceva la lingua del paese; si interessava del monachesimo, non solo come monaco e vescovo, ma anche in qualità di storico delle personalità illustri che onorarono l’istituzione con la loro santità e le virtù ascetiche; ne apprezzava senza dubbio le tradizioni più antiche.
Non solo, dunque, Teodoreto tace sulle origini egiziane del monachesimo siro, ma attribuisce alla propagazione del fenomeno una direzione del tutto opposta, e cioè da Oriente ad Occidente e non da Occidente ad Oriente, come dovrebbe essere se il monachesimo provenisse dall’Egitto».

 

In effetti, stando agli aneddoti che emergono dagli articoli del Dott. Ioannidis ed avendo qualche veloce cognizione del testo di Teodoreto di Cirro dedicato agli antichi monaci siri mi sentirei di richiamare “l’ascesi violenta e disumana” di cui parlava Mircea Eliade a proposito della tradizione ascetica hindu.

Gli antichi monaci siri erano difatti in grado di digiunare a oltranza, anche per un’intera quaresima, gravavano il proprio corpo, vissuto come il loro peggiore nemico, con catene di ferro, dormivano molto poco e, generalmente, sulla nuda terra, facevano talora voto di rimanere sempre in piedi e si esponevano imperturbabili ai più duri agenti atmosferici.

Un quadro che, in effetti, può ricordare facilmente personaggi che si possono incontrare (ed io qualcuno ne ho incontrato) nei grandi raduni della Kumbh Mela.

Facile immaginare quanto un tale stoicismo conferisse a questi antichi monaci siri un forte carisma, lo stesso che avrebbe scosso profondamente Monteluco, la Valle Castoriana e probabilmente la stessa Valle Suppentonia facendone una fucina di eremi e, per venire al concetto da approfondire, di laure.

Ioannidis dedica alle laure, la prima delle quali viene creata in Palestina, un paragrafo del suo articolo che riporto, senza vergogna, per intero:

 

«Il prodotto più originale del monachesimo palestinese furono le Laure. Laura (Λαύρα) è un termine greco che in origine ha il significato di “cammino stretto”, “gola”, “burrone”. La tipica laura palestinese sorgeva infatti all’interno di alcuni stretti crepacci, su versanti desolati o scarsamente coperti da vegetazione di una montagna scoscesa. Il tipo di terreno in cui sorgeva finì per designare l’istituzione.
Moltissime notizie sulle famose laure palestinesi e dei loro famosi asceti le prendiamo dall’agiografo Cirillo di Scitopoli e da Giovanni Cassiano.
I dintorni della laura classica non potevano essere più caratteristici e pittoreschi.
Gli edifici centrali si appoggiavano alla roccia scoscesa, quando non erano intagliati nella stessa pietra; a volte la costruzione si articolava in gradoni. Sparse tutt’intorno si innalzavano le celle dei solitari, che rimanevano nelle loro residenze individuali per tutta la settimana. In esse pregavano, leggevano, meditavano, praticavano l’ascesi e lavoravano. Nelle laure scavate nella roccia le celle erano spesso semplici fenditure; in quelle ubicate in pianura erano costruite di mattoni cotti o seccati al sole. Normalmente erano composte di due locali: un vestibolo e una
piccola camera interna. Il nucleo centrale era composto da una chiesa, una sala di riunione, un forno, un magazzino e il più delle volte una stalla. A volte la chiesa non era che un’ ampia grotta più o meno adattata. Non mancava la foresteria, in cui venivano ospitati pellegrini e viandanti.
Tutti i sabati i solitari della laura si riunivano negli edifici centrali. Si preparavano alla synaxis domenicale e vi prendevano parte, quindi tenevano un’assemblea.
I monaci lavoravano come braccianti nella costruzione di nuovi edifici o nella manutenzione di quelli esistenti. L’egumeno [guida del monastero; il termine è utilizzato nelle Chiese Ortodosse] assegnava loro gli incarichi di maggiordomo, infermiere, cuoco, panettiere e mulattiere.
Nelle laure c’era un unione stretta tra i solitari che la costituivano. La loro vita era soggetta alle regole; tutti erano sottomessi all’autorità dell’egumeno; il sabato e la domenica praticavano vita comunitaria.
Il primo fondatore di laure fu un monaco originario di Licaonia, di nome Caritone.
La fondazione della Laura di Faran, pochi chilometri da Gerusaleme, può essere datata intorno al 330. Caritone fondò altre due laure: una sul monte delle Tentazioni, presso Gerico, e l’altra di nome Souka, vicino a Betlemme. Le tre laure nacquero spontaneamente, senza che Caritone lo avesse deciso. Ciò che cercava era la solitudine con Dio, e nulla più. Ma dovunque egli si stabiliva, affluivano numerosi i discepoli e nasceva una laura.
Un altro famoso asceta che fondò la sua laura nel deserto di Katila, tra Gerusaleme e Gerico, fu l’Armeno Eutimio il Grande (377-473). Lui ha preso parte attiva alle contese dogmatiche che si ebbero tra il Concilio di Efeso (431) e quello di Calcedonia (451) a favore dell’ Ortodossia. Dopo la sua morte la laura si trasformò in cenobio.
Eutimio esercitò una potente influenza sul monachesimo palestinese. Con l’esempio e l’insegnamento contribuì alla diffusione del sistema semieremitico delle Laure. Da allora la stragrande maggioranza dei solitari visse in dipendenza da una laura, sotto la giurisdizione carismatica di un egumeno notoriamente apprezzato per virtù e spirito eletto. L’ importanza di Eutimio per il monachesimo di Palestina emerge più che altro dal magnifico fiorire delle istituzioni monastiche dovute ai suoi discepoli, e in modo particolare a Saba.
Saba (439-523), discepolo di Eutimio, era della Cappadocia. Entrò nel monastero di Flaviane all’età di otto anni e poi entrò nella laura di Eutimio. Di lì si consentì di vivere come anacoreta nel cuore del deserto. Fondò alcune comunità monastiche e la cosiddetta Gran Laura. Fu archimandrita generale del Patriarcato di Gerusalemme».

 

Per avere un “conforto visuale”, cliccare qui per un breve video sulla Laura di Faran, poco distante da Gerusalemme.

Di fianco (o in alto per chi ci legge con il cellulare), una foto di quel che rimane della Laura di Souka, vicino a Betlemme. La foto è stata scaricata da questo sito.

 

 

 

 

Il termine Laura significa dunque cammino stretto, gola, burrone, dati iluoghi in cui, generalmente, veniva realizzata.

Di fianco (o in alto per chi ci legge con il cellulare) abbiamo la foto di un interno di laura palestinese, scaricata ancora da questo sito.
Ora riconsideriamo un stralcio della citazione che ho riportato prima dal bel testo di Tomassetti il quale, a proposito della Valle Suppentonia e dell’eremo di Sant’Elia scrive: «E’ una rupe tagliata a picco, sotto la quale scorre un torrente che va poi ad unirsi nel Treia. Il cenobio fu eretto in un piano così limitato sul dorso della rupe stessa, che può dirsi quasi addossato a questa».

A mio parere esistono pochi dubbi che prima del monastero di Sant’Elia, alposto del quale troviamo oggi l’omonima basilica, nella Valle Suppentonia i primi monaci vivessero in delle laure che avevano nella grotta di San Leonardo (nella foto) il principale punto di aggregazione religiosa.
La Dottoressa Scungio, nella sua tesi di dottorato, ipotizza che la presenza proto-monastica fosse da ascrivere a tutta la Valle Suppentonia e non solo alle grotte prossime a quella, con funzione di chiesa, di San Leonardo.
Abbozza dunque il suggestivo scenario di un’esperienza ascetica diffusa, estesa su di un ampio territorio piuttosto che circoscritta a poche celle.

Dunque, in ardita sintesi, potremmo tratteggiare il seguente profilo: agli inizi del quinto secolo l’anacoresi, l’eremitismo ed il cenobitismo erano oramai esperienze consolidate in Egitto, in Palestina, nei territori dell’attuale Turchia e nella “Siria estesa” (rispetto a quella attuale) cui fa cenno Ioannidis. Dopo l’Editto di Tessalonica (380) non vengono più tollerate, nei territori di un Impero romano diviso ma ancora unico, le cosiddette “eresie” ovvero quelle dottrine che, pur cristiane, erano difformi dall’ortodossia stabilita con il Concilio di Nicea (325) e consolidata in concilii successivi (ad esempio quelli di Efeso e di Calcedonia).

La parte orientale dell’Impero, da secoli crogiuolo di scuole filosofiche, sincretismi di vario genere a partire da elementi giudaici, giudeo-cristiani, cristiani, zoroastriani, ellenistici, gnostici, manichei, eccetera ha particolarmente risentito del nuovo clima di intolleranza cui hanno fatto da corollario tensioni e persecuzioni. In conseguenza di ciò, è probabile (ed è in parte riportato su testi storici cui abbiamo fatto brevemente cenno) che dal vicino Oriente giunsero, in diverse ondate, eremiti, asceti, proto-monaci che si insediarono in aree non molto distanti da Roma (dunque probabilmente non del tutto ignote ai pellegrini cristiani) e particolarmente adatte all’ascesi creando eremi, laure e cenobi. Questo movimento eremitico non era particolarmente strutturato anche se esistevano già delle Regole cui si poteva far riferimento, la più importante delle quali era la Regola Basiliana.
In Umbria lo stesso Benedetto da Norcia ebbe contatti con questi ambienti ascetici e, divenendo a sua volta un eremita, avrebbe poi redatto, a partire dal 540, la Regola Benedettina.

Presto la stessa Regola si sarebbe estesamente diffusa in moltissimi monasteri d’Europa e gli stessi antichi cenobi creati dai primi asceti provenienti dal vicino Oriente sarebbero diventati monasteri benedettini.

Il «monasterii Sancti Aeliae» compare per la prima volta, come abbiamo già visto nel post precedente, in un papiro redatto a Roma o a Nepi nel 557, custodito nell’Archivio arcivescovile di Ravenna. E’ un documento giudiziario in cui si riportano fatti inerenti ad un terreno conteso che, per mediazione del generale Belisario, viene fatto donare al monastero.

La mediazione, tuttavia, non piace a Papa Vigilio che impone all’abate Anastasio di restituire il terreno al legittimo proprietario.

«Il papiro ravennate», commenta la Dottoressa Scungio, «documenta, dunque, l’esistenza, già alla metà del VI secolo, di un monastero intitolato a Sant’Elia, con una sua ben definita strutturazione gerarchica, guidato da un abate, Anastasio, che partecipa attivamente alle questioni socio-economiche e politiche del tempo, che si confronta alla pari con personaggi del calibro di Belisario e di papa Vigilio, assolutamente di primo piano per quel momento storico».

La Dottoressa Scungio non manca di soffermarsi sulla stessa figura di Elia come strenuo difensore del monoteismo; contro ogni forma di sincretismo religioso, «il che già basterebbe a giustificarne la presenza in un luogo che era stato sede di santuari pagani, falisco-etruschi e romani, la cui memoria i monasteri si imponevano programmaticamente di cancellare».

La stessa ascesa di Sant’Elia può essere interpretata, scrive, «come un esempio di quella vita “altra”, su un piano parallelo se si vuole, che l’asceta aspirava a condurre rifuggendo il peccato».

Ed è per questa ragione, sostiene ancora la Dottoressa Scungio, che Elia non morì , divenendo «il saggio per antonomasia nella tradizione giudaica».

 

«Non a caso, nella patristica assurge a modello di vita perfetta. In effetti, il fenomeno monastico del IV secolo propose il profeta come un exemplum virtutis nell’esercizio della preghiera, della continenza, della povertà, del digiuno, del ritiro nel deserto. È pur vero che il culto si diffuse prioritariamente nelle chiese orientali e tardivamente in Occidente, dove una reale conoscenza la si ebbe solo con la pubblicazione del Martirologio Romano nel 1583; d’altronde, la chiesa di Roma ha sempre prediletto le storie di martiri, a sfavore di quelle dei santi dell’Antico Testamento: ecco perché la precoce intitolazione a Sant’Elia, che poi passerà al soprastante castello sorto a difesa del cenobio stesso costituisce una conferma dell’origine orientale di questo gruppo di monaci che presero a riunirsi nella valle Suppentonia prima della metà del VI secolo».

 

Dunque, seguendo la Dottoressa Scungio nelle sue riflessioni possiamo dire che qui il cerchio si chiuda ed, avvicinandoci alla conclusione di questo post, riportiamo quanto narra Gregorio Magno, nel libro secondo dei Dialoghi, a proposito dei discepoli “tardivi” di Elia: l’abate Anastasio e gli altri sette monaci del monastero, nel sesto secolo:

 

«Una notte, dall’alto della rupe posta al di sopra del precipizio («in loco ingens desuper rupis eminet, et profundum super praecipitum patet») ed è questa un’ottima descrizione della valle Suppentonia stessa, dominata oggi dalla chiesetta di San Michele che pare venne eretta proprio dove avvenne il fatto miracoloso si udì una voce che chiamava Anastasio, e subito dopo altri sette membri della comunità; solo in seguito, fu la volta di un ottavo monaco.
Nei giorni seguenti, così come erano stati chiamati, morirono tutti; un discepolo, che proprio non voleva sopravvivere al suo abate, si gettò a terra ai piedi di questo già deceduto, supplicando di essere condotto pure lui nell’aldilà e nell’arco di una settimana morì».

 

La scena è stata rappresentata in un affresco della Basilica di Sant’Elia e la proponiamo di seguito, rigraziando Silvio Sorcini, curatore del sito I luoghi del silenzio, per la fotografia.

 

 

L’ultimo “monaco siro”

 

Proprio in chiusura ritorniamo sulla figura di Fra’ Andrea Rodio, cui abbiamo già accennato nel post precedente. Egli difatti scavò nella viva roccia una lunga scalinata, composta da 144 scalini per facilitare l’accesso dal santuario in cui oggi vivono i Padri Micaeliti alla grotta di Santa Maria ad Rupes. La grotta, che dà il nome allo stesso santuario, è celebre per un affresco oggi scomparso ma riprodotto fedelmente in quadro del XVI secolo, in cui viene riportata la rara immagine della Madonna che adora il Figlio steso sulle sue ginocchia.  L’accesso alla grotta, attraverso un sentiero scosceso, era disagevole al punto che si erano registrati alcuni decessi. Il lavoro che Fra’ Rodio compì sostanzialmente in solitudine durò circa 14 anni e può richiamare “l’ascesi disumana” dei monaci siri cui accennavamo in precedenza.

Fra’ Rodio nacque a Locorotondo nel 1743, abbracciando la vita religiosa a Roma, insieme a Benedetto Giuseppe Labre. Dopo un pellegrinaggio in Palestina iniziò a cercare un romitaggio in cui ritirarsi, scegliendo il Santuario di Santa Maria ad Rupes dove lavorò a scavare la scalinata nella viva roccia tra il 1782 ed il 1796. Ad impresa compiuta, sciolse il voto alla Casa di Loreto, tornò nella Valle Suppentonia dove visse fino al 1819 e dove è tuttora sepolto.

Fra’ Rodio ricevette una visita, in un anno imprecisato, da un certo Dottor Andrea Cav. Belli, autore del testo: Diporti e riposi villereggi, disponibile su internet archive (clicca qui per scaricarlo) in cui ci offre questo succinto racconto:

 

«Entrato egli appena nel romitico abituro vide lo strame in cui coricava le membra affievolite il solitario pugliese; pendevano da un lato parecchie funicelle ferrate pel ministero di tormento penitenziale. Il romito ci offrì un orciuolo d’acqua, poco pane inferigno e frutta secche, né altro aspettar si potea da chi non procaccia per la domane. Queste cose ci risvegliarono l’idea delle catacombe romane e dell’austere Xerofagie [la pratica ascetica nutrirsi di cibo secco e crudo escludendo la carne dalla dieta; per maggiori informazioni segnalo il seguente articolo dell’amico Guidalberto Bormolini] de’ primitivi cristiani».

 

Chissà che Andrea Rodio non sia stato proprio “l’ultimo dei monaci siri”. Sicuramente il Romitaggio di Castel Sant’Elia è ancora oggi un posto di straordinario interesse per chiunque voglia coltivare l’homo religiosus che è in lui. Il romitaggio racchiude in sé circa 2800 anni di storia, a partire dalle gesta di Elia raccontate nei due Libri dei Re e del suo ritiro nel deserto sinaitico che lo forgerà come “primo monaco” e ne farà una figura riconosciuta e venerata nell’ambito di tutta la tradizione abramica. In principio, il romitaggio ha probabilmente ospitato monaci di provenienza orientale il cui rigore ascetico poteva avvicinarsi all’ascesi violenta e disumana di indiana memoria e nel periodo di primissima diffusione della Regola Benedettina (che vi è stata prontamente adottata) godeva già di un grande prestigio, come testimoniato dal papiro ravennate.

Parliamo insomma di un gioiello di valore inestimabile nella suggestiva terra di Tuscia ed è molto probabile che, in un modo o in un altro ne torneremo a parlare…

 

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