Tuscia mistica, terza parte

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Tuscia mistica, terza parte

Abbiamo terminato la seconda parte di questa paziente ricerca con un documentario sulle origini del fenomeno eremitico cristiano che, come molti sanno, hanno avuto luogo in Egitto alla fine del terzo secolo.

In questo terzo post, dopo aver ancora brevemente indugiato nel vicino Oriente, ci sposteremo in Europa, riavvicinandoci gradualmente alla Tuscia.

Il focus sarà ancora una volta la sua dimensione religiosa, in particolare nel momento in cui la sub-regione del Lazio settentrionale ha fatto da suggestiva cornice a diverse forme di ricerca mistica, ovvero di realizzazione piena dell’homo religiosus. Riprendendo liberamente la definizione di Mircea Eliade: l’homo religiosus è colui che, esule volontario, fuoriesce senza rimpianti dalla vicenda umana, per sposare il cielo.

Buona lettura!

Manuel Olivares

 

Scrive Federico Marazzi, Professore di Archeologia Cristiana e Medievale e autore del testo; Le città dei monaci. Storia degli spazi che avvicinano a Dio:

 

«Antonio, il “padre” dei monaci eremiti d’Egitto, spiegò con una parabola al governatore romano della provincia che acconsentì ad incontrare in via del tutto eccezionale, quale fosse lo stato delle persone che avevano scelto di vivere come lui:

“I pesci vengono tolti dal mare. Se rimangono a lungo in secco, muoiono. Così gli eremiti, se restano tra di voi e rimangono a lungo con voi, si corrompono. Come i pesci si affrettano a tornare in mare, così noi dobbiamo affrettarci a tornare sul monte per non dimenticare, indugiando, le cose che sono là dentro”. (clicca qui per leggere il suo dossier: Le origini del fenomeno eremitico in Italia)».

 

Dopo essersi espanso in Siria, in Palestina ed in Asia Minore, il fenomeno eremitico raggiunge l’Europa e l’Italia nel quarto secolo, grossomodo in contemporanea con la redazione della prima regola monastica, ad opera di Basilio il Grande, il primo dei Padri cappadoci. Ed è da una sua breve presentazione che credo sia giusto iniziare.

 

 

Il legislatore del monachesimo orientale

 

Basilio il Grande viene presentato con dovizia di particolare nel sito dei monaci Basiliani di Grottaferrata (Roma).

Offriamo qui un profilo sintetico della sua figura e della sua vita che avrebbero dato contributi di fondamentale importanza al nascente monachesimo.

Basilio nasce a Cesarea (Cappadocia) nel 329. Si forma culturalmente nella propria città natale, a Costantinopoli ed Atene dove ha inizio la sua storica amicizia con Gregorio di Nazianzo (successivamente santificato ed altro padre cappadoce).

Nel 357, dopo aver insegnato brevemente retorica a Cesarea ed aver soggiaciuto ad alcune tentazioni della vita mondana, ricevuto il battesimo si mette in viaggio alla volta dei centri monastici  (anche se, dato il periodo storico che stiamo considerando, era più appropriato parlare di eremi e cenobi in quanto il monachesimo era ancora agli albori) di Egitto, Palestina, Siria e Mesopotamia.

Di ritorno in Cappadocia fonda il suo monastero sulle rive del fiume Iris, nei pressi di Neocesarea, l’attuale Niksar (nella Turchia settentrionale).

Nel 370 viene eletto vescovo a Cesarea e non manca di opporsi all’imperatore Valente, assiduo sostenitore delle dottrine ariane.

Nel lasso di dieci anni, a seguito della morte di Valente nella battaglia di Adrianopoli, l’arianesimo viene definitivamente marginalizzato con l’editto di Tessalonica, promulgato da Teodosio I, che fa del credo niceno la religione unica e obbligatoria dello stato ma Basilio il Grande non ha modo di giorne, morendo il primo gennaio 379.

Tra le iniziative che hanno reso celebre Basilio il Grande merita menzione la realizzazione del primo ricovero per viaggiatori, con annesso ospedale per i poveri, appena fuori Cesarea e, soprattutto, la redazione, cui abbiamo già accennato, di un sistema di regole volte a disciplinare, soprattutto, la vita dei primi monaci: il Codice Basiliano.

Questo ha rappresentato un’autorevole fonte di ispirazione per tutto il successivo monachesimo orientale ed è ancora oggi seguito dai monaci ortodossi e dalla maggior parte dei monaci cattolici orientali.

Il Codice Basiliano, opera di colui che venne anche definito il “legislatore del monachesimo orientale“, ha profondamente ispirato lo stesso Benedetto da Norcia (che considerava Basilio il Grande suo maestro) nella redazione della sua regola.

E’ importante sottolineare l’importanza conferita da Basilio il Grande alla dimensione comunitaria delle esperienze cenobitiche, in grado di favorire l’esercizio della carità, la correzione dei rispettivi difetti ed il mutuo aiuto rappresentando, al contempo, un antidoto al rischio di superbia della fuga mundi solitaria. 

Interessante citare, a questo proposito, l’Estratto da “La vocazione cristiana – Un percorso attraverso la Regola di san Basilio” di Hans Urs von Balthasar (Ed. Jaca Book 2003) riportato nel sito ora-et-labora.net:

 

«L’anacoreta non ha la possibilità né di praticare umilmente l’amore del prossimo né di lasciarsi correggere dal prossimo. Corre allora il pericolo della superbia».

 

Addentriamoci ora, pur brevemente, nel lavoro di Basilio il Grande come “legislatore del monachesimo orientale”.

Citando dal sito delle Clarisse eremite:

 

«Basilio limitò il numero dei monaci che vivevano assieme e inserì i monasteri all’interno della realtà sociale ed ecclesiale, aggregando ospizi, scuole, orfanotrofi. Ridimensionò l’impegno dei lavori manuali, dando maggior rilievo alla preghiera e allo studio. Infine, Gerolamo (347-419) riuscì ad esportare nell’Occidente queste forme di vita ascetica sorte nel mondo orientale». 

 

La redazione della regola, di Basilio il Grande, si è sviluppata in diversi stadi, ad iniziare dal suo periodo di romitaggio sul fiume Iris.

Le prime in ordine cronologico sono state le “Regole Morali” (HΘIKA), rivolte a tutti i cristiani di buona volontà, che fossero o meno “nel secolo”.

Segue lo stadio definito dal benedettino J. Gribomontpiccolo Asceticon“, giunto a noi solo nella traduzione latina di Rufino, i cui contenuti verranno poi separati e rispettivamente integrati ne “le regole diffuse” e “le regole brevi” (“grande Asceticon“).

Tanto nel “piccolo Asceticon” quanto ne “le regole diffuse” e “le regole brevi” i contenuti si sviluppano attraverso un sistema di domande e risposte e divengono vieppiù peculiari di un ordine monastico.

Le risposte di Basilio alle domande che gli vengono poste dai discepoli vengono regolarmente corroborate da riferimenti alle Scritture.

Credo meriti, infine, citare un paio di passaggi da “le regole diffuse“, con particolare riferimento al valore della vita ascetica, segnalando a chi volesse approfondire le regole basiliane il seguente link.

 

D – 5: Della dispersione d’animo da evitare

R.: Occorre sapere questo: non ci è possibile osservare né il comandamento dell’amore di Dio, né quello della carità verso il prossimo, né nessun altro comandamento, se i nostri pensieri cambiano costantemente oggetto.

Non si può conoscere esattamente un’arte o un professione quando si passa dall’una all’altra, e non si può certamente giungere a perfezionarne una, se non si conosce ciò che è proprio al fine da raggiungere. Occorre, infatti, proporzionare i mezzi al fine poiché, con mezzi inadatti, nessuno raggiungerà perfettamente ciò che si è proposto.

Un calderaio non farà nulla lavorando come un vasaio, ed un atleta non guadagnerà la corona esercitandosi al flauto, ma ad ogni fine corrisponde uno sforzo speciale ed adeguato.

È lo stesso della vita di ascesi con la quale vogliamo piacere a Dio conformandoci al Vangelo di Cristo: noi possiamo portarla avanti soltanto stando lontani dalle preoccupazioni del mondo e mettendo al bando in modo assoluto le distrazioni.

[…]

D – 6: Della necessità di vivere nella solitudine

R.: Per aiutare l’anima a concentrarsi, occorre abitare nella solitudine.

È pericoloso, infatti, rimanere fra quelli che vivono senza alcun timore di Dio e disdegnano di osservare perfettamente i suoi comandamenti. Salomone ce lo insegna dicendo: “Non ti associare a un collerico e non praticare un uomo iracondo, per non abituarti alle sue maniere e procurarti una trappola per la tua vita” (Pr 22,24-25); ugualmente dice l’Apostolo: “Perciò uscite di mezzo a loro e separatevi, dice il Signore” (2 Cor 6,17).

[…]

 

 

Eremitismo e proto-monachesimo in Occidente

 

Come si accennava, le prime esperienze eremitiche e protomonastiche in Occidente si hanno nel IV secolo e si legano fondamentalmente a due figure: il già citato San Girolamo (nella foto) e San Martino di Tours, celebre per il famoso gesto di aver tagliato il suo mantello in due parti uguali per vestire un mendicante.

San Girolamo nasce a Stridone, nell’attuale Croazia, nel 347. Studia a Roma e vive un certo periodo a Treviri, in Germania (città natale, diversi secoli dopo, di Carlo Marx) dove Sant’Atanasio, agiografo, come abbiamo visto, dell’eremita Sant’Antonio, insegna l’anacoresi egiziana. Si dedica dunque all’ascesi per qualche anno, prima ad Aquileia e poi, tra il 375 ed il 376,  nel deserto attorno alla città di Chalcis, nell’attuale Siria, a circa 40 chilometri da Aleppo. Nello stesso deserto della Calcide monaci cristiani siriaci avrebbero successivamente fondato un importante monastero. A questo periodo risale il celebre episodio della guarigione, da parte di San Girolamo, di un leone ferito, in una zampa, da una spina e che gli sarebbe poi rimasto “leggendariamente” accanto per tutta la vita (in realtà, stando a quanto si legge sul sito della Treccani, l’episodio della guarigione del leone va ricondotto alla figura di S. Gerasimo, eremita in Palestina). Successivamente San Girolamo si perfeziona, a Costantinopoli,  nello studio del greco, dell’esegesi biblica e delle scienze teologiche avendo come mentore Gregorio Nazianzeno, come abbiamo visto legato da profonda amicizia con Basilio il Grande. Nel 382 si trasferisce a Roma, diventando segretario di papa Damaso I e padre spirituale di un gruppo di donne, di origini nobiliari e facolstose, con aspirazioni ascetiche. Sfiorato ma mancato il soglio pontificio, torna con alcune discepole in Oriente, fondando a Betlemme un monastero maschile (dove si ritira, accompagnato, leggendariamente, dal fido leone) ed uno femminile. Qui si dedica all’attività che lo avrebbe definitivamente consacrato alla storia: la traduzione in latino dell’Antico Testamento e, successivamente, dell’intera Scrittura ebraica. San Girolamo muore nel 420 a Betlemme, nello stesso anno in cui l’imperatore Onorio impone al clero il celibato, prerogativa per cui il santo traduttore ed asceta si era a lungo battuto.

E’ tuttavia con San Martino di Tours (316-397), figlio di un ufficiale romano e votato, già a 15 anni, alla carriera militare e di trent’anni più giovane di San Girolamo, che il monachesimo si radica materialmente in Occidente.

San Martino riceve il battesimo nel 337, abbandona l’esercito e si dedica all’apostolato in Italia ed in Francia. si ritira poi a vita eremitica a Ligugé dove, nel 360, prima che San Girolamo si ritirasse a vita anacoretica nel deserto siriano della Calcide, fonda il primo monastero d’Occidente.

Nel 371 diviene vescovo di Tours e, poco dopo, fonda nei suoi dintorni (presso l’odierna Marmoutiers) il Monasterium Maius che eclissa presto quello fondato precedentemente a Ligugé.

 

San Martino dedica i successivi 26 anni ad un’intensa opera di apostolato, accreditandosi come uno dei maggiori diffusori del cristianesimo nel tardo impero romano. Patrono della dinastia dei Merovingi, la sua fama avrebbe raggiunto presto anche l’Inghilterra dove una chiesa verrà fatta realizzare in suo onore, a Canterbury, da Bertha, figlia del re di Parigi Cariberto e sposa del re del Kent Etelberto. La chiesa di San Martino (nella foto) rappresenterà la prima base per il lavoro di cristianizzazione dell’Inghilterra iniziato, a partire dalla fine del 500, da Agostino di Canterbury, inviato nel paese da Gregorio Magno.

 

 

L’Abbazia di Sant’Eutizio

 

 

Riavviciniamoci ora, finalmente, alla Tuscia, soffermandoci in Umbria per un po’. Precisamente nella Val Castoriana dove giunsero dei monaci grosso modo da quegli stessi territori dove si avventurò San Girolamo a fare anacoresi, nell’attuale Siria.

E’ bene specificare subito che Sant’Eutizio che dà nome all’abbazia della Val Castoriana non è lo stesso santo nativo di Ferento e martirizzato dopo aver celebrato una messa in onore di Gratilliano e Felicissima martirizzati, a loro volta, a Falerii Novi e di cui abbiamo parlato nel post precedente.

Tra i due santi omonimi vi sono, difatti, circa tre secoli di differenza. Sant’Eutizio di Ferento visse nel terzo secolo d.C., Sant’Eutizio della Val Castoriana visse nel sesto secolo.

Fatto questo doveroso chiarimento, per presentare brevemente alcuni antefatti storici, relativi all’Abbazia di Sant’Eutizio cito il sito I luoghi del silenzio i cui autori hanno curato e continuano a curare, con buona regolarità, molte scrupolose descrizioni di posti, spesso appartati, di elevato valore religioso e/o culturale, soprattutto nel centro Italia (molti nella stessa Tuscia). Luoghi, in molti casi, particolarmente ispiranti per chi sia in cerca di quiete e, appunto, di silenzio:

 

«Nel V e VI secolo, nella zona, ma in tutto l’Appennino, ci fu un intenso movimento eremitico spinto soprattutto dalla presenza di monaci siriani, fuggiti dalle persecuzioni e dalle lotte connesse ai grandi concili d’Oriente. Queste persone svilupparono uno stile di vita di tipo anacoretico, ma anche forme cenobitiche anticipando la Regola di S. Benedetto, che sarebbe arrivata ben più tarda.

S. Gregorio Magno, nei “Dialogorum” (redatti circa nel 593), racconta che il padre venerando Spes fondò, intorno al 450 (all’inizio del dominio dei Goti) un monastero a Cample, nella valle detta anche Castoriana, vicino Norcia. Sicuramente si riferisce al luogo dove nel V sec., S. Spes, con un gruppo di altri eremiti sparsi nella zona, si erano stanziati in vicinanza di una copiosa sorgente che scaturisce tutt’oggi dal masso spugnoso. Dai Dialoghi si deduce che gli eremiti erano organizzati secondo la Regola Basiliana che prevedeva la riunione in «laure» di 12 eremi intorno ad un oratorio dove un superiore li dirigeva spiritualmente. Sebbene il termine usato da Gregorio per quei ricoveri fosse “monasterum”, dobbiamo pensare a povere capanne, di modestissime proporzioni, spesso semplici cavità scavate nella roccia, in cui i penitenti vivevano in assoluta povertà, meditazione e preghiera.
Si racconta inoltre che S. Spes perse la vista per circa 40 anni dopodiché improvvisamente la riacquistò in fin di vita tanto da poter vedere prima di morire gli sviluppi della sua comunità, infatti poco tempo dopo morì, e nel dettaglio S. Gregorio scrive: “erano già trascorsi quarant’anni dal dì che fu privato della vista, quando al Signore piacque di ridonargliela, avvisandolo in par tempo che la sua fine era vicina, e che egli doveva apportare il conforto della sua parola di vita ai diversi monasteri ch’erano stati fabbricati tutt’intorno (monasteriis circumquaque constructis)”.

Alla morte di Spes, un suo discepolo, Eutizio, che conduceva la sua vita di ascesi insieme al compagno Fiorenzo in un eremo poco distante nell’alta valle della Guaita, per le sue grandi virtù divenne la guida spirituale del cenobio. La comunità ebbe un notevole impulso ed in questo periodo venne eretto il primitivo monastero e la chiesa nella quale alla sua morte vennero deposte le spoglie di S. Eutizio. Quando arrivò dal suo eremo (poco distante dall’attuale Abbazia di Sant’Eutizio) ricavò la sua cella tra alcune grotte esistenti nel masso di travertino che sorregge, ancora oggi, la torre campanaria, e che sono ancora visibili. Costruì poi la chiesa, che subirà successivi ampliamenti e rifacimenti ed in essa raccolse le spoglie del compagno Spes. Secondo lo Iacobilli il monastero fu fondato nell’anno 536, quando Eutizio ne divenne abate “…e per esserne stato ampliatore, fu il monastero intitolato al suo nome” (Iacobilli)».

 

A chiunque volesse maggiori informazioni sull’Abbazia, in particolare in merito ai suoi sviluppi nei secoli successivi, segnalo il seguente link.

L’Abbazia di Sant’Eutizio sarebbe stato un centro irradiatore di vita monastica nei propri dintorni dove sorgeranno, come riportato ancora ne I luoghi del silenzio, eremi e cenobi che poi diverranno oratori, pievi e cappelle.

Citando ancora il sito menzionato:

 

«Lo stile di vita di questi monaci presentava molte affinità con la Regola di S. Benedetto ed in seguito la adottarono definitivamente. Anzi si può dire senza ombra di dubbio che furono proprio loro ad ispirare lo stile di vita che poi sfociò nella Regola di San Benedetto: l’infanzia e l’adoloscenza del santo, nato nel 480, fu marcata dall’esperienza di quei monaci che vivevano nell’area del suo territorio; S. Spes, aveva l’asceterio nella valle di Monte Cardosa, Sant’Eutizio praticava l’eremitaggio nelle grotte scavate nella spugna calcarea che si possono visitare nel complesso abbaziale e S. Fiorenzo aveva l’eremo presso villa Collescille e tutti erano famosi in tutta la valle di Norcia».

 

A questo punto, non possiamo non considerare più a fondo la figura di San Benedetto da Norcia (di cui abbiamo riportato un dipinto all’inizio del presente post), il cui ruolo nello sviluppo della successiva tradizione monastica, in Occidente, fu di assoluto rilievo.

 

 

San Benedetto Da Norcia

 

Il più importante agiografo di San Benedetto fu il pontefice Gregorio il Grande che gli dedica il secondo libro dei suoi Dialoghi.

Ne riporto di seguito alcuni stralci, rimandando chi volesse leggerlo integralmente al seguente link.

 

«[Benedetto] era nato da nobile famiglia nella regione di Norcia. Pensarono di farlo studiare e lo mandarono a Roma dove era più facile attendere agli studi letterari. Lo attendeva però una grande delusione: non vi trovò altro, purtroppo, che giovani sbandati, rovinati per le strade del vizio.

Era ancora in tempo. Aveva appena posto un piede sulla soglia del mondo: lo ritrasse immediatamente indietro. Aveva capito che anche una parte di quella scienza mondana sarebbe stata sufficiente a precipitarlo intero negli abissi.

Partenza da RomaAbbandonò quindi con disprezzo gli studi, abbandonò la casa e i beni paterni e partì, alla ricerca di un abito che lo designasse consacrato al Signore. Gli ardeva nel cuore un’unica ansia: quella di piacere soltanto a Lui. Si allontanò quindi così: aveva scelto consapevolmente di essere incolto, ma aveva imparato sapientemente la scienza di Dio».

 

Si ritirò presto in “una località solitaria e deserta chiamata Subiaco, distante da Roma circa 40 miglia, località ricca di fresche e abbondantissime acque, che prima si raccolgono in un ampio lago e poi si trasformano in fiume“.

Prende dimora in una “in una stretta e scabrosa spelonca”, dove gli veniva regolarmente portato del cibo dal monaco Romano che viveva in un vicino, piccolo monastero. Divenne presto celebre, nella zona, per alcuni miracoli, descritti in dettaglio da Gregorio il Grande.

Salvandosi, miracolosamente, da un tentativo di avvelenamento si trasferisce presto a Cassino

 

«situato sul fianco di un alto monte, che aprendosi accoglie questa cittadella come in una conca, ma poi continua ad innalzarsi per tre miglia, slanciando la vetta verso il cielo. C’era in cima un antichissimo tempio, dove la gente dei campi, secondo gli usi degli antichi pagani, compiva superstiziosi riti in onore di Apollo. Intorno vi crescevano boschetti, sacri ai demoni, dove ancora in quel tempo, una fanatica folla di infedeli vi apprestava sacrileghi sacrifici.

Appena l’uomo di Dio vi giunse, fece a pezzi l’idolo, rovesciò l’altare, sradicò i boschetti e dove era il tempio di Apollo eresse un Oratorio in onore di S. Martino e dove era l’altare sostituì una cappella che dedicò a S. Giovanni Battista.

Si rivolse poi alla gente che abitava lì intorno e con assidua predicazione la andava invitando alla fede».

 

Seguono altri miracoli ed eventi rilevanti come l’incontro con il re goto Totila che, da allora, sarà meno feroce nelle sue imprese guerriere e, come gli viene profetizzato da Benedetto, morirà dopo dieci anni di regno.

Successivamente, Benedetto predirà la distruzione del suo monastero che effettivamente avverrà per mano longobarda che tuttavia, come previsto dal santo, non farà vittime tra i monaci.

Nel monastero di Montecassino, divenuto presto il più importante centro monastico dell’Occidente, Benedetto scrive la propria regola, cui ci dedicheremo brevemente nel prossimo paragrafo e vi rimane fino al 547, anno della sua morte, evento ben descritto da Gregorio il Grande nel secondo libro dei Dialoghi, di cui riporto, di seguito, lo stralcio:

 

«Nell’anno stesso in cui doveva morire, annunziò il giorno del suo beatissimo transito ai suoi discepoli, alcuni dei quali vivevano con lui ed altri che stavano lontani. Ai presenti ordinò di custodire in silenzio questa notizia, ai lontani indicò esattamente quale segno li avrebbe avvisati che la sua anima si staccava dal corpo.

Sei giorni prima della morte, si fece aprire la tomba. Assalito poi dalla febbre, cominciò ad essere prostrato da ardentissimo calore. Poiché di giorno in giorno lo sfinimento diventava sempre più grave, il sesto dì si fece trasportare dai discepoli nell’oratorio, ove si fortificò per il grande passaggio ricevendo il Corpo e il Sangue del Signore.

Sostenendo le sue membra, prive di forze, tra le braccia dei discepoli, in piedi, colle mani levate al cielo, tra le parole della preghiera, esalò l’ultimo respiro.

La morte del SantoIn quel medesimo giorno, a due fratelli, uno dei quali stava in monastero, l’altro fuori, apparve una identica visione.

Videro una via, tappezzata di arazzi e risplendente di innumerevoli lampade, che dalla sua stanza volgendosi verso oriente si innalzava diritta verso il cielo. In cima si trovava un personaggio di aspetto venerando e raggiante di luce, che domandò loro di chi fosse la via che contemplavano. Confessarono di non saperlo. “Questa – disse egli – è la via per la quale Benedetto, amico di Dio, è salito al cielo”.

Così i presenti e i lontani videro e conobbero da quel segno predetto la morte del santo.

Fu sepolto nell’oratorio del Beato Giovanni Battista, oratorio che egli aveva edificato, dopo aver distrutto il tempio di Apollo. E fino ai nostri giorni, se la fede degli oranti lo esige, egli risplende per miracoli anche in quello Speco di Subiaco, dove egli abitò nei primi tempi della sua vita religiosa».

 

 

La Regola di San Benedetto

 

Benedetto si dedica alla realizzazione di quest’opera imponente che avrebbe impregnato di sé i successivi secoli europei, continuando ad essere attuale ancora oggi, tra il 530 ed il 550, a Montecassino.

La Regola è dunque il prodotto di un lavoro lento e paziente e di diverse revisioni e verrà considerata un testo al contempo normativo e spirituale, scritto in un latino “popolare”.

Nella redazione della Regola San Benedetto trae profonda ispirazione da diversi personaggi che lo avevano preceduto. Uno di questi è stato già considerato ed è Basilio il Grande. Ma San Benedetto trasse ispirazione anche da colui che aveva aperto la strada all’opera di Basilio, a colui che rese comunitarie le prime esperienze eremitiche nel deserto egiziano e cui abbiamo solo accennato nel post precedente perché la sua figura viene ben tratteggiata nel documentario che abbiamo condiviso nella parte finale dello stesso: San Pacomio (290-346 circa).

Merita menzionare il fatto che San Pacomio sia stato l’autore della prima regola monastica scritta, tradotta in latino da San Girolamo nel 404, modello primo delle regole successive, a partire da quella di Basilio il Grande.

Nel sito ora et labora si soffermano con interessanti dettagli sul lavoro di Pacomio:

 

«La vita monastica dei pacomiani era derivata direttamente dalla Scrittura, sopratutto NT e in particolare i Vangeli. Altra caratteristica era imitare gli esempi dei Padri (Antonio il Grande, Pacomio stesso ecc.). La nota dominante e’ l’organizzazione: si trattava di una specie di villaggio diviso in tante case o famiglie.

Le osservanze principali sono quelle che poi diverranno comuni a tutti i monaci: ufficio divino, celebrazioni liturgiche, letture bibliche, conferenze spirituali, lavoro di vario tipo secondo le varie “case”. Inutile dire che in questi grandi agglomerati monastici c’era posto per tutti, c’era possibilita’ di vari mestieri e di varie occupazioni».

 

Altro grande personaggio che influenzerà San Benedetto è Sant’Agostino, grande ammiratore di Sant’Antonio eremita e della prima comunità cristiana di Gerusalemme descritta negli Atti degli Apostoli e che, intorno al 388, si ritira in un luogo appartato con alcuni compagni a vivere una vita di studio ed ascesi.

Trasferitosi da Tagaste ad Ippona vi costruirà un monastero che tuttavia dovrà lasciare quando, nel 395, verrà consacrato vescovo.

Ancora citando dal sito Ora et labora:

 

«L’ascesi monastica agostiniana è contenuta nella Regola per i servi di Dio (“Regula ad servos Dei“), molto breve ma piena di sapienza e di equilibrio. Le grandi linee sono:

– ricerca costante di Dio nella vita comune, realizzata in un perfetto spogliamento individuale e in una perfetta comunione di beni;

– fusione degli spiriti e dei cuori in una autentica carita’;

– apertura pastorale ai fratelli.

C’e’ somiglianza tra il monachesimo agostiniano e quello di S.Basilio Magno: tutti e due prendono a modello il Vangelo e il fervoroso inizio della prima comunita’ cristiana di Gerusalemme; in S.Agostino si vede piu’ chiaramente l’unione del monachesimo al sacerdozio, come pure un impegno piu’ immediato verso lo studio delle scienze sacre».

 

Tuttavia l’ispiratore imprescindibile sembra essere stato Giovanni Cassiano (360-435; nella foto) che si sarebbe profuso in ampi resoconti di vita monastica dopo lunghe esperienze sul campo per poi fondare, nel 415, un paio di monasteri di ispirazione egiziana a Marsiglia, uno per uomini ed uno per donne.

Cassiano avrebbe dunque vissuto a Marsiglia fino alla morte, vent’anni dopo la fondazione summenzionata.

I suoi resoconti di vita monastica verranno inseriti nei suoi due testi: De institutis coenobiorum e nelle Collationes. Verranno entrambi considerati da San Benedetto (che non manca di citarli nella sua opera) alla stregua di autorevoli trattati per la formazione dei monaci.

Accanto ad altre fonti di ispirazione su cui ora sorvoliamo, rimandando chi fosse interessato al seguente link merita menzionare rapidamente il rapporto tra la Regola di Benedetto e la Regola del Maestro. Quest’ultima viene fatta risalire ai primissimi decenni del VI secolo, essendo dunque, probabilmente, immediatamente precedente a quella di San Benedetto il quale, a parere di molti storici di oggi, ne avrebbe fatto abbondantemente uso nella realizzazione della sua opera.
Le somiglianze sono, difatti, rimarchevoli.

L’autore della Regola del Maestro è anonimo. Un’ipotesi suggestiva è che detta regola fosse utilizzata nel Protocenobio di San Sebastiano, presso Alatri (in provincia di Frosinone), dove nel 528 sarebbe stato ospite lo stesso San Benedetto, in viaggio verso Montecassino. Da allora, tra lui e l’abate Servando (che, in precedenza, visse un lungo periodo di ascesi in Palestina dove conobbe la regola di San Pacomio) sarebbe nata una profonda amicizia, dunque i rapporti tra il Protocenobio di San Sebastiano (che avrebbe successivamente adottato la regola benedettina) ed il monastero di Montecassino non sarebbero rimasti circoscritti alla visita di San Benedetto.

La Regola di San Benedetto si sviluppa in un prologo e 73 capitoli. Le virtù principali che vi vengono magnificate sono: l’obbedienza, il silenzio e l’umiltà.

Scrive Attilio Stendardi nella sua Introduzione all’edizione del 1995 del libro di Gregorio Magno,Vita di San Benedetto e la Regola, Edizione Città Nuova (pagina 18), citato in un bel documento di Sergio Bini scaricabile qui:

 

[Con la “Regola di San Benedetto”] «unico è il monastero, unico l’abate, unico è il legislatore. Non vi è più dispersione, la parola “fine” è pronunciata contro il vagabondare dei monaci, i cosiddetti “erranti” e contro i “sarabaiti”, privi di un preciso impianto spirituale, superficiali e mediocri, tali da suscitare la netta opposizione del Santo che volle dai suoi monaci il voto di stabilità (stabilitas loci) a scanso di quegli equivoci ed a significare che per il monaco non v’è altra volontà di Dio fuori dell’obbedienza e questa coincide con la Regula. Di erranti e sarabaiti non si parli neppure, melius est silere, quam loqui [capitolo I della Regola]. Costoro chiamano santo ciò che fa loro comodo e illecito quel che loro non aggrada, vagano in cerca di piaceri …; rammolliti come piombo, perché non passati per il crogiuolo di una regola, mentre ancora serbano fede al secolo con le loro opere, mostrano con la tonsura, che mentiscono a Dio».

 

Dopo questa felice sintesi, concludiamo questo paragrafo segnalando a chi volesse leggere, parzialmente o integralmente, la “Santa Regola” (che avrebbe presto permeato buona parte del monachesimo europeo; il più antico manoscritto della Regola è un codice inglese ed un forte rapporto si sarebbe poi determinato tra monachesimo benedettino e regno franco) il seguente link

 

 

Di ritorno nella Tuscia, approdiamo alla Valle Suppentonia

 

 

La Valle Suppentonia, tra Nepi e Castel Sant’Elia fu un posto che stregò Massimo D’Azeglio che la ritrasse nel dipinto di cui abbiamo riportato la foto (presa dal blog: Camminare nella storia).

La valle, solcata dal Fosso del ponte o della mole vecchia (affluente del fiume Treia), ha sempre avuto una vocazione religiosa, prima pagana (celando antiche memorie di un tempio etrusco e di un paio di templi romani, uno dei quali dedicato a Diana e fatto realizzare da Nerone) e poi cristiana.

La valle lambisce un acrocoro tufaceo che ospitava, probabilmente, un modesto abitato falisco successivamente passato sotto il controllo romano pur continuando a mantenere una bassa densità demografica.

Le molte grotte che costellano la valle avevano, in principio, una funzione abitativa o funeraria e vennero presto utilizzate da anacoreti (anche se può darsi il caso siano state create appositamente da costoro), probabilmente di origine orientale

La Valle Suppentonia difatti, al pari di altri luoghi in Italia centrale, ospitò i primi pionieri del fenomeno monastico orientale in Europa.

Scrive la Dottoressa Elisabetta Scungio nella sua tesi di Dottorato in Storia dell’Arte: Arte e monachesimo benedettino nell’Alto Lazio dalle origini al XII secolo (clicca qui per scaricarla) a proposito di questa valle suggestiva:

 

«In effetti, i caratteri del luogo, misticamente affascinante, impervio e ostile, materialmente isolato e distaccato dalla mondanità urbana, […] ne mostrano una particolare adeguatezza a forme di vita anacoretica o, almeno, semianacoretica, un po’ come nel caso delle lavre siro-palestinesi; in simili modelli insediativi, la vita quotidiana e la meditazione del religioso si svolgevano appartatamente nella propria cella, la cui solitudine veniva temporaneamente abbandonata per momenti di preghiera congiunta e di condivisione colletiva con gli altri eremiti della zona. Una modalità del genere risulta piuttosto verosimile anche nella valle Suppentonia dove accanto alle decine di minuscole ed essenziali celle scavate nel costone tufaceo, ve ne è una, quella detta di San Leonardo, articolata in più vani, di cui uno leggermente più vasto degli altri, dipinto e dotato di altare, dunque con inequivocabile funzione liturgica, atto ad accogliere le celebrazioni comuni; allo stesso modo, il cenobio che qui poi si verrà sviluppando, quello di Sant’Elia, potrebbe essere stato nient’altro che l’evoluzione di uno di questi spazi aggregativi per il culto e la liturgia».

 

Nella Valle Suppentonia, oltre alla cella di San Leonardo sarebbero diventate oggetto di venerazione popolare quella di Sant’Anastasio e di San Nonnoso.

Sant’Anastasio, notaio della curia pontificia prima di ritirarsi a vita ascetica, fonda, intorno al 520, il monastero di Sant’Elia (monasterium Sancti Aeliae), nel cuore della valle dove oggi sorge l’omonima basilica romanica, realizzata fondata tra l’VIII ed il IX secolo.

La prima testimonianza del monastero è del 557 in un papiro depositato presso l’archivio vescovile di Ravenna.

Citando nuovamente il sito I luoghi del silenzio:

 

«Il documento riferisce di una contesa di proprietà, nel periodo della guerra greco-gotica, vi compaiono i nomi: dell’Abate Anastasio, del Papa Virgilio che opera la riconciliazione e la restituzione dei beni usurpati, del generale Belisario e di un tale personaggio di nome Gundilla che dopo la riconciliazione fa una donazione alla Chiesa di Santa Maria di Nepi.
Per scomodare il Papa e Belisario il monastero doveva aver già raggiunto una notevole importanza».

 

Tuttavia Sant’Anastasio, pur essendo a capo di un monastero importante, non rinunciò alla sana abitudine cenobitica di ritirarsi in preghiera nella sua grotta che ci viene dettagliatamente descritta dalla Dottoressa Scungio. La presenta come un sito rupestre articolato in tre ambienti. Il primo è piuttosto ampio…

 

«…coperto da un soffitto voltato su cui si individuano molto bene i segni del piccone; dal centro del vano si diparte una ripida scala che scende verso Nord (l’accesso è collocato a Sud, dunque verso il lato opposto), conducendo ad un corridoio chiuso. Sul lato Est, invece, è collocato un varco, marcato da due scalini, verso il secondo vano, meno ampio del precedente, di forma rettangolare e con uno spesso strato di intonaco sulle pareti: questo si apre sul lato meridionale con una finestra quadrangolare sulla valle Suppentonia, ed è caratterizzato nell’angolo Sud-Ovest da una piccola buca, già usata come camino, e in quello opposto ad Est da una nicchia rettangolare con degli erosissimi scaffali in legno, probabilmente una libreria. Da qui, tramite una serie di quattro gradini che seguono una porta aperta sul lato settentrionale per poi curvare ad Est, si passa all’ultima sala, ad un livello ancora più basso: quest’ultima è quella che presenta maggiori elementi di interesse.

Alta circa m 2,20, chiusa da un soffitto piano, è carratterizzata dai segni dell’escavazione del piccone sulle pareti; vi si accede dall’angolo Nord-Ovest, dove si apre un passaggio piuttosto ampio (alto m 2, largo m 1), che lambisce l’estremità dell’adiacente parete occidentale, la più lunga, con i suoi m 4,40; quella a Nord, ad essa contigua, presenta una nicchia poco profonda, dal profilo superiore grosso modo semicircolare (alta m 1, larga circa cm 80), rivestita di un intonaco bianco su cui doveva stendersi una decorazione pittorica, della quale si vede solo l’evanescente traccia di un volto maschile dai capelli lunghi, nimbato e forse con una corona di spine, ovvero quello che rimane di un ritratto cristologico di epoca imprecisabile.

 

Al di sotto, nel tufo, è stato risparmiato quello che sembra essere un genuflessorio a parete, composto da un blocco parallellepipedo (grosso modo alto m 1, largo cm 85) aggettante di circa cm 30 dalla parete, corredato, in basso, sulla fronte, da un’ulteriore sporgenza di cm 25, spessa cm 20, su cui, a ben vedere, ci si poteva inginocchiare per la preghiera.

Nulla di particolare, al contrario, è da individuarsi nel fianco Est (lunghezza intorno ai m 3,70), mentre, proseguendo a Sud, si nota che la parete (lunga circa m 3,80), dove si apre una finestra rettangolare, solo parzialmente ricavata per escavazione come le altre, perché un buon tratto è costruito in laterizi [21]; verso Est, le si addossano quattro gradini che conducono ad un sottotetto coperto a capriate.».

 

La terza grotta o cella, come abbiamo detto oggetto di venerazione popolare sarebbe quella di San Nonnoso, preposito (a capo, cioè, di una congregazione di chierici regolari), del Monastero di San Silvestro, sul Monte Soratte.

Anastasius Nonnoso assidue iungebatur scrive San Gregorio Magno nel libri I dei suoi Dialoghi: Anastasio si incontrava spesso con Nonnoso. C’è chi sostiene che Nonnoso sia succeduto ad Anastasio nella guida del monastero nella Valle Suppentonia ma è un’ipotesi non condivisa dai diversi agiografi che si sono occupati dei due santi.

Sia come sia esiste la grotta di San Nonnoso nella Valle Suppentonia che, tuttavia, scrive la Dottoressa Scungio, “Ormai è pressoché impossibile raggiungerla, essendo crollato il percorso di accesso” e “vista l’esiguità della testimonianza monumentale, risulta impossibile offrire una proposta cronologica circa l’epoca di realizzazione dell’ambiente”. Peccato!

Avviandoci alla conclusione, credo meriti citare un altro pregevole contributo degli autori del sito I luoghi del silenzio, a proposito, nuovamente, della Cella di San Leonardo:

«Si tratta di un insediamento rupestre a carattere religioso con precedente funzione cimiteriale, ubicato lungo l’antico percorso che da Falerii Veteres portava a Nepi. La grotta, si raggiunge percorrendo un sentiero che costeggia il banco tufaceo a ovest dell’antica basilica e al di sotto della terrazza del belvedere che apre verso la valle dalla piazza principale del paese. Questa grotta deriva da una serie di tombe falische riutilizzate all’uopo dai monaci – eremiti e non è composta da un unico ambiente, ma consta di più ambienti intercomunicanti. L’insediamento appare basso, a pianta irregolare e comprende tre ambienti. Attraverso un’ ampia apertura si entra in un vano rettangolare, l’ambiente principale (ambiente 1) in cui venivano svolte le celebrazioni ecclesiastiche.

A destra dell’apertura, nella parete Nord, è presente un catino absidale che risulta essere di fattura postuma; un arcosolio è scavato nel lato sinistro del catino absidale e presenta un piccolo altare collegato alle reliquie sottostanti da un foro. Questo altare fu descritto dal Grisal nel 1892 che lo confrontò con quello della Chiesa dei SS. Apostoli di Roma datato VI secolo. Di fronte al catino absidale, nel lato sud della stanza, un’apertura immette, tramite un gradino, in una seconda camera semicircolare (ambiente 2), da qui si entra nell’ultima camera (ambiente 3). Gli ambienti 2 e 3 fungevano, forse, da celle per i monaci, infatti, la presenza di una finestra medievale, nell’ambiente 2, indica la particolare e ricercata necessità di illuminare e di areare l’ambiente, proprio in dipendenza di un soggiorno prolungato nel suo interno. Nell’ambiente principale sono presenti gli affreschi che, ad un’ultima analisi, risultano essere gravemente deteriorati. Padre Roberto Serra nel 1889 aveva descritto questi affreschi che già all’epoca risultavano molto deteriorati. Egli identificava cinque figure di apostoli o profeti, una figura della Madonna e la rappresentazione di Gesù nell’atto di benedire.

Nel frontale destro della tribuna identificava Giovanni Evangelista che tiene in mano un rotolo spiegato in cui si leggeva : “In principio erat Verbum, et verbum erat apud Deum, et Deus erat Verbum“. Nel frontale di sinistra la pittura è svanita quasi del tutto tranne un brano del rotolo con la lettera E, forse “Ecce Agnus Dei” caratteristica del Battista e quindi forse la raffigurazione del Battista. Al centro l’Agnello con l’aureola a due raggi. Nel piccolo catino absidale erano allineate orizzontalmente tre figure: il Salvatore in mezzo, a sinistra una figura irriconoscibile, forse San Pietro, e a destra una figura di Maria. Altre pitture nella parete destra dell’entrata del vano. Tra queste una figura di monaco che ha ” nella mano destra una spada e nella sinistra un libro”, forse identificabile con San Leonardo di Nobiliacum, come sosteneva il Lezzani nel 1902. L’insediamento rupestre di San Leonardo costituì, probabilmente, anche un luogo di rifugio per i monaci intorno al X secolo. E’ noto, infatti, che in questo periodo il Lazio era in balia dei Saraceni e di un’altra forza devastatrice facente capo ad una sorta di brigantaggio, ad opera dei cosiddetti latrunculi chiristiani”. Questi ultimi erano il prodotto della miseria che gravava in quel periodo nelle campagne, i contadini si trasformavano così in briganti d’occasione, prendendo a modello gli stessi musulmani. Non è da escludere quindi, in proposito, che la dedica della grotta a San Leonardo abbia voluto sottolineare proprio la specifica funzione di rifugi; infatti. San Leonardo, il cui culto a partire dall XI secolo riscuote grande popolarità, è stato anche invocato come protettore contro i briganti».

 

Il cenobio, come si accennava si sviluppò nel monasterium Sancti Aeliae, fondato da Sant’Anastasio in cui si sarebbe successivamente adottata la Regola benedettina ed al posto del quale troviamo ora la Basilica di Sant’Elia, parte del Santuario pontificio di Santa Maria “ad rupes”. Il santuario prende il nome da un’altra grotta che ne costituisce, ancora oggi, il cuore. Dal 520, infatti, i monaci benedettini  venerevano un’immagine della Madonna, un affresco impresso sulle pareti tufacee di cui purtroppo non è potuto rimanere nulla. L’immagine è stata tuttavia riprodotta su un quadro del XVI secolo esposto nella stessa grotta e sarebbe una rarità, in quanto “appartiene al ristretto numero delle immagini nelle quali la Madonna adora il Figlio che dorme sulle ginocchia materne” (clicca qui per leggere una succinta presentazione del santuario). Nel 1258 il cenobio e la basilica vennero abbandonati.

«Seguirono cinque secoli di abbandono, ma la venerazione alla Madonna rimase viva tra le popolazioni locali. Con l’arrivo nel 1777 di Fra’ Giuseppe Andrea Rodio (1745-1819), iniziò per il Santuario una epoca nuova. Per facilitare l’accesso alla Grotta dei molti pellegrini , venne scavata nel tufo vivo una galleria e dopo un immane lavoro durato 14 anni, venne aperta una scala di 144 gradini.  Nell’anno 1912 tutto il complesso del Santuario passò in possesso della Santa Sede e il Santuario fu elevato a titolo di Pontificio e di Basilica Minore. Nel gennaio 1982 subentrò all’Ordine dei Francescani una nuova Comunità religiosa: la Congregazione di S. Michele Arcangelo (Padri Micaeliti), fondata dal Beato P. Bronislao Markiewicz (1842-1912), la quale è l’attuale custode del Santuario».

 

Al momento ci fermiamo qui ma torneremo nel prossimo post a parlare di questo antico cenobio nella Valle Suppentonia, sicuramente uno dei posti più affascinanti della Tuscia (e non solo) per l’accidentata ricerca della realizzazione piena dell’homo religiosus.

 

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